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Il fatto della conversione religiosa

di Massimo Introvigne
Relazione di apertura al XXI Simposio Internazionale di Teologia, Universidad de Navarra, Pamplona, 14 aprile 2010

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 Premessa: il problema

Uno spettro si aggira fra gli studiosi di scienze sociali delle religioni: la conversione. Non si può dire che il fenomeno della conversione non preoccupi coloro che studiano i fenomeni religiosi nella “società complessa” contemporanea. Al contrario, come rilevava Thomas Robbins, “sembra chiaro che un ammontare sproporzionato della ricerca” nei diversi settori delle scienze religiose “si è rivolta a studiare i processi di conversione e di nuovo impegno religioso”[1]. Che la conversione sia così studiata, rilevava lo stesso sociologo americano, è un fatto paradossale, e deriva forse dalla preoccupazione che i convertiti suscitano: “in una società ‘secolare’” la conversione sembra “un fenomeno non naturale e problematico, che si presume implichi processi esoterici”, e lo studioso è chiamato a scoprire di quali processi esattamente si tratti[2]. Più semplicemente, si potrebbe ritenere che gli studi sulla conversione siano diventati di moda a partire dagli anni 1980 perché sono tornate di moda le conversioni.

Secondo una valutazione certamente esagerata, ma presentata nel 1991 su una rivista scientifica autorevole, da seimila a ottomila cattolici latino-americani al giorno (certo in grandissima parte non praticanti) si convertirebbero a una varietà di denominazioni e comunità protestanti o “settarie”[3]. È più probabile che la cifra sia oggi piuttosto vicina al migliaio, ma resta comunque elevata[4]. Si comprende così come l’esperienza della conversione – che ancora William James (1842-1910) considerava relativamente rara nelle società occidentali –, se oggi si ripete centinaia di volte tutti i giorni, susciti stupore e richieda spiegazioni. In gran parte il problema della conversione richiama quello di nuovi movimenti religiosi fortemente proselitistici, che hanno iniziato la loro attività nel secolo XIX: la Chiesa Mormone, forse il gruppo di maggiore successo nel proselitismo, è stata fondata nel 1830; gli Studenti Biblici, antenati dei Testimoni di Geova, nel 1878. La maggior parte degli studi riguardano in effetti gruppi variamente denominati “nuove religioni”, “nuovi movimenti religiosi”, “sette” o “culti”[5].

Da diversi decenni sembra tuttavia che si siano fatti più frequenti, particolarmente negli Stati Uniti, anche i passaggi da una denominazione protestante storica all’altra, e dal cattolicesimo al protestantesimo[6]. Vi è anche un forte interesse per il contrario della conversione, la “disaffiliazione” o “apostasia”, cui sono stati dedicati importanti studi[7]. Il discorso non è peraltro privo di una certa carica di ambiguità perché molte conversioni, considerate da un altro punto di vista, sono nello stesso tempo “apostasie”, se non da una precedente affiliazione religiosa almeno da una precedente visione del mondo. Diverse scienze – la fenomenologia delle religioni, la storia, la psicologia, l’antropologia e la sociologia, per non parlare della teologia – si occupano oggi del fenomeno della conversione, e – benché molti auspichino un accostamento interdisciplinare – i tentativi in questo senso non sono né facili né numerosi.

Lo sfondo è costituito dalla società complessa, caratterizzata dalla globalizzazione e dallo scambio d’informazioni anche fra culture diverse sempre più rapido e vorticoso. Tenere conto di questo sfondo non significa dare un giudizio di valore aprioristico sulla globalizzazione. Come insegna Benedetto XVI nella Caritas in veritate, “talvolta nei riguardi della globalizzazione si notano atteggiamenti fatalistici, come se le dinamiche in atto fossero prodotte da anonime forze impersonali e da strutture indipendenti dalla volontà umana”. In realtà, di per sé “la globalizzazione, a priori, non è né buona né cattiva. Sarà ciò che le persone ne faranno”[8].

Nella prima parte di questo articolo esaminerò cinque tipi prevalenti di teorie della conversione – distinti a seconda della scienza che funge da principale punto di riferimento metodologico, anche se vengono in causa contributi di altre scienze e chi propone ciascuno dei modelli è spesso comunque un sociologo –, mettendo in luce alcuni problemi particolarmente dibattuti. Nella seconda parte proporrò le possibili linee di un modello interdisciplinare della conversione.

1. Cinque tipi di modelli della conversione

a) Modelli fenomenologici

Chiamo “fenomenologico” un modello che intende descrivere – prima ancora di spiegare – “che cos’è” o “com’è” la conversione. M’interesso qui soltanto delle teorie della conversione, senza preoccuparmi della vexata quaestio dell’esistenza o meno di una fenomenologia della religione come scienza autonoma rispetto ad altre discipline.

La classica definizione fenomenologica della conversione è quella di Gerardus Van Der Leeuw (1890-1950) secondo cui si tratta di “una nuova nascita”: “l’esperienza vissuta nella conversione è quasi sempre la stessa in tutte le religioni: un secondo io sorge accanto al primo, una vita nuova comincia, tutto è trasformato”[9]. Con l’emergere della problematica dei nuovi movimenti religiosi dopo la Seconda guerra mondiale, anche gli accostamenti fenomenologici si sono modificati. Ci si è resi conto che la conversione non poteva più essere descritta come un fenomeno unitario, ma occorreva piuttosto cercare una tipologia che distinguesse tra vari tipi di conversione. I cultori di fenomenologia della religione adottano spesso ancora oggi un modello che tiene conto anche della sociologia, proposto all’inizio degli anni 1980 da John Lofland e L. Norman Skonovd, che distingue fra sei diversi tipi di conversione a seconda di cinque variabili: la pressione sociale, la durata temporale dell’esperienza di conversione, l’“eccitazione affettiva”, il contenuto dell’esperienza di conversione, il rapporto fra credenza nelle dottrine e partecipazione alle attività del gruppo a cui ci si converte. Lofland e Skonovd distinguono così:

– la conversione intellettuale, che può avvenire – in casi limite che tuttavia non sono inesistenti – senza contatto diretto con il gruppo cui ci si converte. È possibile, nel mondo mediatico della società complessa, convertirsi semplicemente leggendo letteratura di propaganda o più spesso vedendo la televisione – o ancora, oggi, via Internet –, senza conoscere personalmente neppure un membro del gruppo, che sarà avvicinato in seguito ma cui ci si considera già convertiti;

– la conversione mistica, una sorta di “estasi” o “teofania” che si manifesta al termine di un periodo di tensione, in genere con una scarsa pressione da parte del gruppo cui ci si converte. Questo tipo di conversione è raro, ma di tanto in tanto si presenta anche nella società globalizzata, che non ha ucciso il misticismo;

– la conversione sperimentale, molto più frequente e tipica della società contemporanea, caratteristica al contrario di chi decide di tentare, quasi come “esperimento”, una partecipazione protratta per qualche tempo alle attività di una nuova religione per “vedere com’è”. Se l’esperienza si rivela soddisfacente segue la vera e propria conversione. In questo caso la sequenza “conversione alle credenze/impegno nelle attività” viene rovesciata: si comincia a rendersi attivi in un gruppo religioso prima di credere nelle sue dottrine. Secondo Lofland e Skonovd la conversione “sperimentale” si ritroverebbe frequentemente presso i Testimoni di Geova e nella Chiesa di Scientology;

– la conversione affettiva passa per lo sviluppo di legami di affezione con un membro della religione cui ci si converte. La frequenza delle conversioni causate da matrimoni nella nostra società è un esempio eloquente di questo tipo di processo; anche qui – come nell’ipotesi precedente – l’impegno in alcune attività del gruppo spesso precede la credenza;

– la conversione di risveglio si distingue da quella “mistica” perché, a differenza del misticismo, il “risveglio” o revival è stato organizzato da qualcuno con il dichiarato scopo di ottenere conversioni. In questo caso la pressione del gruppo cui ci si converte è alta, ma l’esperienza è breve e rischia di essere effimera. L’esempio caratteristico è quello delle conversioni ottenute dai predicatori televisivi americani. In genere, in tutto il variegato mondo del protestantesimo pentecostale l’itinerario di conversione è in maggioranza di questo tipo;

– infine la conversione coercitiva – secondo il controverso modello della manipolazione mentale, su cui torneremo a proposito degli accostamenti di tipo psicologico – sarebbe, secondo Lofland e Skonovd, estremamente rara e si verificherebbe soltanto nel caso di individui già afflitti da gravi problemi psicologici, o quando ci si trova di fronte a gruppi che attirano i loro adepti in comunità chiuse dove possono subire pressioni e minacce anche di ordine fisico[10]. Naturalmente l’accenno alla conversione “coercitiva” sposta il discorso su un piano diverso da quello puramente fenomenologico, in direzione di un’analisi delle ragioni e dei meccanismi della conversione, studiati anche da altre angolazioni[11].

b) Modelli storici

Le spiegazioni che sono più comunemente offerte in quella letteratura, anche sociologica, che tiene conto di una prospettiva di carattere storico in tema di conversione – specie in relazione ai nuovi movimenti religiosi – sono sostanzialmente due. La prima è di natura soggettiva e si concentra – per esprimersi in termini economici – sulla domanda religiosa. La seconda è di natura oggettiva e si concentra invece sull’offerta. La prima spiegazione prende l’avvio dalle teorie della deprivazione, assoluta o relativa, di cui soffrirebbero numerose persone nella nostra società per i più svariati motivi. Alcuni si sentiranno “deprivati” dei beni economici ritenuti necessari a un livello di vita decoroso, altri soffriranno di una “deprivazione relativa” quanto alla felicità o al senso da dare alla propria vita. La teoria della “deprivazione relativa” era già stata formulata negli anni 1930 da Robert K. Merton (1910-2003)[12], ed era stata applicata ai nuovi movimenti religiosi da David Aberle (1918-2004) negli anni 1970[13].

Da un certo punto di vista, la teoria della “deprivazione relativa” è perfino ovvia: è evidente che chiunque cambi radicalmente il suo atteggiamento nella vita, per esempio – ma non solo – convertendosi a una nuova religione, avverte un vuoto che intende colmare. Studi più recenti hanno tuttavia notato come esista una coincidenza sospetta fra le teorie sociologiche della “deprivazione relativa” e le spiegazioni che i convertiti ai nuovi movimenti religiosi danno della loro esperienza ai sociologi che li intervistano. Vi è il rischio, in altre parole, che la teoria della “deprivazione relativa” si limiti a prendere per buona la ricostruzione ideologica della propria conversione offerta in modo stereotipato post factum da chi ha aderito a una religione diversa da quella in cui è nato[14].

Naturalmente, non si deve neppure presupporre che i convertiti mentano quando vengono intervistati: piuttosto, la loro ricostruzione della conversione tende naturalmente a conformarsi all’ideologia e alla visione del mondo che hanno appreso nella religione di approdo. James Beckford in un celebre studio sui Testimoni di Geova[15], e David E. Van Zandt nel suo resoconto di una “osservazione partecipante” condotta fra i Bambini di Dio, il movimento oggi chiamato The Family[16], hanno messo in luce un’altra importante limitazione delle teorie della “deprivazione relativa”. È possibile che, da un certo punto di vista, il convertito non sapesse di soffrire di una “deprivazione” e lo abbia “scoperto” soltanto quando è stato sollecitato dall’abile tecnica proselitistica del movimento. Più in generale, oggi la sociologia guarda con sospetto alle teorie ingenue secondo cui i movimenti sociali “rispecchierebbero” i bisogni. Sono teorie vittima di una “fallacia naturalistica” tipica del positivismo o di un certo marxismo. Più spesso, i movimenti sociali creano propagandisticamente i bisogni che poi si offrono di soddisfare.

Queste osservazioni – che naturalmente non negano il complesso intreccio fra esigenze reali e altre create dalle varie propagande e proselitismi – tengono già conto del secondo tipo di spiegazioni della conversione, in genere proposto più dagli storici della religione in senso stretto che non dai sociologi. Si tratta della teoria dell’“incontro delle culture” su cui ha insistito Jean-François Mayer[17], secondo cui, a fronte di domande e di inquietudini che sono sempre esistite, è cresciuta oggi in modo impressionante l’offerta religiosa, a causa anche della globalizzazione. Si tratta, anche in questo caso, di una crescita relativa: in ogni epoca di crisi, dall’ellenismo al Rinascimento, sono nati numerosissimi movimenti religiosi nuovi. Ma soltanto oggi grazie alla facilità dei viaggi, alla radio, alla televisione, a Internet, alla possibilità di preparare e stampare le loro pubblicazioni a basso costo grazie al desktop publishing quasi qualunque movimento nato su scala locale riesce a farsi conoscere in pochi anni in gran parte del mondo. Se una certa “fame” di novità e di esotismi è sempre esistita, oggi può essere soddisfatta senza troppa fatica e senza neppure spostarsi dal proprio paese. Si possono incontrare ashram indiani o comunità di monaci tibetani in Spagna o sulle colline toscane in Italia senza bisogno di raggiungere l’India o il Tibet.

Anche i modelli di carattere storico spiegano le circostanze del cambiamento, ma non veramente perché questo possa prodursi in un modo radicale. Per una visione più completa sembra necessario introdurre anche altre variabili.

c) Modelli psicologici

La letteratura psicologica in tema di conversione si è concentrata a lungo sulla polemica intorno alla metafora del “lavaggio del cervello”, originariamente coniata per descrivere il trattamento inflitto dalla Cina comunista prima ai propri “dissidenti” in patria, poi ai prigionieri di guerra americani in Corea, che rilasciavano sorprendenti – ma spesso effimere – dichiarazioni di “conversione” al comunismo. La discussione – condotta spesso in toni molto accesi – non è rimasta limitata agli ambiti accademici, perché – soprattutto negli Stati Uniti, ma anche in Europa – non sono mancate vicende giudiziarie che hanno coinvolto nuovi movimenti religiosi (in particolare la Chiesa di Scientology, la Chiesa dell’Unificazione, gli Hare Krishna) accusati di “lavare il cervello” ai loro adepti. Sulla base della teoria del “lavaggio del cervello” è nata anche la pratica della cosiddetta “deprogrammazione”, cioè il rapimento di membri maggiorenni di nuovi movimenti religiosi – in genere su incarico dei loro genitori – per sottoporli a una serie di tecniche in cui “deprogrammatori”, che in genere non sono medici né psichiatri, tentano di indurli a rinunciare alla loro adesione al movimento attraverso tecniche di pressione psicologica e qualche volta anche fisica.

Non è questa la sede per ripercorrere le complesse vicende giudiziarie che si sono sviluppate a proposito del “lavaggio del cervello” e della “deprogrammazione”[18]. Vale la pena, tuttavia, di chiedersi di che tipo sia il modello di conversione basato sulla teoria del “lavaggio del cervello”. Snow e Machalek hanno affermato che “il modello del ‘lavaggio del cervello’ e della ‘persuasione coercitiva’ costituisce la più popolare spiegazione della conversione al di fuori degli ambienti sociologici. La tesi di base è che la conversione è il prodotto di forze devianti ma identificabili, che agiscono su persone che non ne sospettano la natura e sono pertanto altamente vulnerabili. Questa tesi riposa sulla congiunzione di elementi che provengono sia dalla psicologia clinica sia dalla teoria psicoanalitica (...). Una disfunzione fisiologica indotta del cervello è vista pertanto come la chiave della conversione. Quando questa proposta si combina con una teoria psicoanalitica, abbiamo il quadro del convertito come un individuo che è diventato ricettivo a nuove idee perché la sua capacità critica e la forza del suo ego sono state erose dal controllo dell’informazione, dall’eccessiva stimolazione del sistema nervoso, da confessioni forzate, e dalla distruzione dell’ego”[19].

In questa definizione è significativo il riferimento alla teoria del “lavaggio del cervello” come “la più popolare (...) al di fuori degli ambienti sociologici”. Con pochissime eccezioni, infatti, i sociologi hanno respinto la teoria del “lavaggio del cervello” accusando gli psicologi e psichiatri che la propongono di pregiudizi positivistici. Se i modelli storici tendono a prendere per buona la ricostruzione posteriore della conversione a opera del convertito, i modelli del “lavaggio del cervello” – non meno acriticamente – tendono ad accettare le ricostruzioni degli “ex” che sono stati “deconvertiti” – talora tramite la “deprogrammazione” – e hanno abbandonato movimenti religiosi controversi. Per spiegare come hanno potuto compiere in passato una scelta che oggi giudicano assurda, gli “ex” tendono a creare “storie di atrocità”, che rafforzano la metafora del “lavaggio del cervello” ma la cui base fattuale è spesso dubbia[20].

I modelli psicologici del “lavaggio del cervello”, inoltre, si concentrano sull’analisi qualitativa di singoli casi, e ignorano gli studi quantitativi che mostrano come i metodi praticati anche dai nuovi movimenti religiosi più controversi non abbiano nulla di “magico”, perché – fra centinaia di frequentatori di un corso o seminario introduttivo, tutti sottoposti alle stesse tecniche di persuasione – solo una piccola parte si affilia al movimento. Gli stessi studi quantitativi mostrano che il turnover di nuovi movimenti religiosi controversi come la Chiesa di Scientology e la Chiesa dell’Unificazione è altissimo. Una larga maggioranza dei convertiti abbandona il movimento spontaneamente – cioé non in seguito a “deprogrammazione” o a consimili interventi dall’esterno – dopo un periodo variabile da due a cinque anni. In un’opera cruciale per questo problema, la sociologa inglese Eileen Barker concludeva che tra coloro che visitano un centro della Chiesa dell’Unificazione e sono sottoposti a un tentativo di conversione meno di uno su cento aderisce al movimento e ne fa ancora parte due anni dopo il primo contatto[21].

Benché ancora popolare nella letteratura giornalistica, l’uso dell’espressione “lavaggio del cervello” appare oggi in via di abbandono negli ambienti scientifici, particolarmente dopo la morte della sua più convinta sostenitrice, la psicologa americana Margaret Singer (1921-2003). Non mancano, anzi, tentativi di dialogo fra (ex-)sostenitori della teoria del lavaggio del cervello e sociologi che hanno duramente criticato questa teoria, per arrivare a posizioni almeno parzialmente comuni[22]. Se è vero che i cervelli non si “lavano” e che non ci sono tecniche “magiche” per ottenere la conversione, non è meno vero che in alcuni movimenti non si può prescindere da un certo profilo di manipolazione, di truffa, d’inganno che almeno sul piano morale dev’essere denunciato e censurato.

Non sono mancati peraltro psicologi e psichiatri che hanno proposto modelli alternativi a quelli della manipolazione mentale. Alcuni fra gli studi più importanti si devono al docente di psichiatria presso la New York University Marc Galanter, che ha proposto un modello basato sulla teoria generale dei sistemi del biologo Ludwig von Bertalanffy (1901-1972), secondo cui nei gruppi religiosi che svolgono intense attività proselitistiche – e ai quali dunque ci si converte – si verificano fenomeni tipici dei sistemi complessi, come l’induzione e il controllo dei confini[23].

d) Modelli antropologici

Chiamo “antropologici” i modelli che insistono sul ruolo attivo di “ricercatore” (seeker) del convertito, che in un certo senso “crea” la sua nuova identità religiosa. Criticando le teorie del “lavaggio del cervello”, soprattutto il sociologo del Nevada James T. Richardson ha invitato a liberarsi dei modelli “passivi” secondo cui la conversione sarebbe sempre qualcosa che “accade” al convertito senza che chi si converte giochi un ruolo particolarmente attivo nel processo[24]. Uno dei modelli più antichi ma tuttora influenti – che muove da ricerche sulle conversioni alla Chiesa dell’Unificazione – rientra nel paradigma “antropologico” ed è stato elaborato dal già menzionato John Lofland e da uno dei fondatori della nuova sociologia della religione americana, Rodney Stark. Il modello Lofland-Stark – che risale al 1965 e che ha esercitato un’enorme influenza sugli studi in tema di conversione – prevede sette tappe:

– presenza nella persona che si convertirà di tensioni profonde e non passeggere;

– tendenza della persona a cercare risposte ai suoi problemi in un contesto religioso;

– trasformazione in un seeker, cioè in un soggetto che si sposta da un gruppo all’altro alla ricerca di una verità religiosa;

– incontro in un momento cruciale della vita (turning point, “punto di svolta”) con un determinato gruppo religioso;

– sviluppo di legami affettivi con uno o più membri del gruppo incontrato;

– rottura delle relazioni con le persone che si oppongono al gruppo o che comunque vogliono rimanergli estranee;

– interazione intensa con i membri del gruppo, che a questo punto può “dispiegare” il convertito sul suo “teatro di operazioni” come “agente” per ulteriori attività di proselitismo[25].

Lo stesso John Lofland, ritornando sul famoso articolo scritto con Stark dopo oltre vent’anni, trovava il modello ancora troppo “passivo” e suggeriva d’interpretare le sette tappe sottolineando maggiormente il ruolo attivo del convertito[26]. Si può osservare che nel modello Lofland-Stark le sette tappe si riferiscono, in realtà, a situazioni diverse. Le prime quattro rappresentano piuttosto fattori che predispongono a convertirsi, le ultime tre sono invece gli “stadi” per cui passa il vero e proprio processo di conversione. A proposito di questi ultimi il sociologo francese Thierry Mathé, in uno studio del 2005 sulle conversioni al buddhismo in Francia, ha sostenuto che queste corrispondono a un bisogno di “rigenerazione” personale: il seeker cercherebbe il benessere e la pace piuttosto che la verità[27].

Greil e Rudy – rianalizzando i numerosi tentativi di applicazione del modello Lofland-Stark a un gran numero di gruppi religiosi diversi – hanno concluso che il modello si è rivelato valido per le conversioni a movimenti considerati devianti dalla società nel suo insieme, mentre spiega meno bene le conversioni a gruppi che godono di una maggiore accettazione sociale[28]. Il modello Lofland-Stark rimane comunque influente, ma – in diversi studi relativi a singoli movimenti religiosi – si è sottolineata la necessità di coordinarlo con un’analisi dello “sfondo” sociale del processo di conversione. Gli stessi Lofland e Stark sono oggi d’accordo con questa impostazione.

e) Modelli sociologici

I modelli che chiamo “sociologici” danno rilievo principale a un elemento che non è assente nel modello Lofland-Stark – i quali, dopo tutto, sono sociologi –: il ruolo dei network sociali, il cui studio è coltivato anche in altri settori della sociologia. Uno dei più antichi studi sociologici del processo di conversione che utilizza la teoria dei social network risale al 1980 e si deve a Snow, Zurcher ed Ekland-Olson. Snow e i suoi collaboratori concludevano che la conversione a un gruppo religioso dipende largamente da due variabili: la presenza di legami personali con uno o più membri del gruppo, e l’assenza di forti legami personali con membri di network diversi o concorrenti[29]. Le “contro-influenze” più forti che ostacolano la conversione a un nuovo movimento religioso che richiede un impegno a tempo pieno sarebbero il legame matrimoniale o familiare, la situazione economica, il lavoro.

È stata applicata così anche alle conversioni – particolarmente ai nuovi movimenti religiosi – l’analisi che punta sulla nozione di “soggetto a rischio”, chiedendosi chi è “a rischio” di aderire a un movimento controverso[30]. Queste analisi hanno finito per distinguere fra movimenti religiosi proselitistici che operano seguendo i network sociali e movimenti che operano invece contro i network. I movimenti del secondo gruppo – come gli Hare Krishna, la Chiesa dell’Unificazione o la Chiesa di Scientology – tendono a isolare i convertiti dai loro network familiari e occupazionali richiedendo un impegno molto intenso, e per molti a tempo pieno, nelle attività del gruppo. I soggetti “a rischio” di convertirsi a questo tipo di movimenti sono pertanto soprattutto i giovani (talora gli anziani) che non hanno un forte attaccamento a network preesistenti. Tipicamente, hanno appena lasciato la famiglia dei genitori, non ne hanno ancora formata una nuova e non hanno ancora una precisa identità lavorativa.

Questo modus operandi, tipico di movimenti religiosi controversi che reclutano persone avvicinate per strada, da una parte è favorevole a rapide conversioni, ma dall’altra ostacola l’espansione del movimento nel suo insieme. Le conversioni che non hanno occasione di confrontarsi con un inserimento preesistente in network forti sono spesso effimere e di breve durata. Inoltre manca la possibilità di utilizzare il convertito come porta d’accesso a network sociali in cui svolgere ulteriori operazioni di proselitismo. Il convertito potrà essere soltanto “dispiegato” come “agente” per avvicinare persone che non conosce[31]. Per contrasto, i movimenti che cercano i convertiti principalmente utilizzando i network sociali e familiari di coloro che sono già membri – come i mormoni – a gioco lungo sembrano ottenere conversioni più durature e anche più numerose.

Vi è certo il rischio di assumere i network e le relazioni interpersonali come elementi di un modello sociale puramente meccanico, prendendo ultimamente poco sul serio la conversione e le credenze del convertito. Wuthnow ha criticato queste teorie come “riduzionismo sociometrico”[32]. Il compianto Roy Wallis (1945-1990) e Steve Bruce hanno criticato soprattutto i modelli di Snow, sottolineando come “le strategie di conversione non sono indipendenti dagli scopi e dalle visioni del mondo dei movimenti”[33]. La conversione agli Hare Krishna, per esempio, non dipende soltanto dall’uso – o dal non uso – dei network ma dalla particolare ideologia, indù e di “separazione dal mondo”, di questo movimento che attira alcune persone e ne respinge altre. Ultimamente Wallis e Bruce criticano la nozione di “soggetto a rischio” e di “disponibilità” alla conversione, rilevando che si tratta di termini che tendono a mettere in secondo piano le caratteristiche uniche di ogni nuova fede a cui ci si converte.

Secondo i due studiosi britannici “la ‘disponibilità’ non è una qualità fissa. Se siamo ‘disponibili’ o ‘a rischio’ di adulterio nonostante le nostre mogli, i nostri figli, e i mutui da pagare, dipende spesso da chi esattamente ci offre la sua compagnia”. Un uomo felicemente sposato e con figli non sarà “a rischio” – gli esempi femminili utilizzati sono evidentemente degli anni in cui scrivevano i due sociologi, e diranno poco ai giovani di oggi – di avere una relazione “con Margaret Thatcher, ma potrebbe diventare ‘a rischio’ se a proporgli una relazione si presentasse Brooke Shields”...[34].

Con queste ultime osservazioni comincia a venire in primo piano un elemento spesso “non detto” nelle teorie sociali della conversione, cioè il sistema di credenze al quale ci si converte. Più in generale il modello dell’individuo “socialmente isolato” che, secondo la teoria dei social network, sarebbe più disponibile alla conversione è stato costruito sulla base di tre nuovi movimenti religiosi a proposito dei quali i fenomeni di conversione sono stati più studiati dai sociologi: la Chiesa dell’Unificazione, gli Hare Krishna e la Chiesa di Scientology. Il modello – come molti hanno notato – funziona meno nei confronti di altri movimenti; ma sono proprio altri gruppi – pentecostali, mormoni, Testimoni di Geova, Soka Gakkai – a essere emersi come protagonisti di primo piano di conversioni, molto più numerose, che la società occidentale trova difficile spiegare.

2. Verso un modello interdisciplinare

a)         Le quattro dimensioni della conversione

Come abbiamo visto, la maggior parte dei modelli che le scienze sociali della religione ci propongono si concentrano su tre dimensioni del fenomeno della conversione e sulle loro reciproche interrelazioni:

la persona del convertito, a proposito del quale ci si chiede per esempio se soffra di forme di deprivazione, sia un soggetto psicologicamente labile, sia “in ricerca”, sia privo di legami con network familiari o sociali “forti”: e di tutti questi fattori si dirà che rendono il soggetto “a rischio” o comunque favoriscono la conversione, in cui peraltro – come ormai in genere si riconosce – il convertito gioca un ruolo non soltanto passivo, ma anche attivo;

– il gruppo religioso cui ci si converte, che svolge un’operazione proselitistica – sfruttando o meno i network sociali – più o meno intensa, utilizzando tecniche persuasive che, contrariamente a quanto pensavano le teorie più antiche del “lavaggio del cervello”, non sono “magiche”, ma talora sono capaci di indurre una certa pressione che si situa nelle parti alte del continuum fra la pubblicità che entra quotidianamente nelle nostre vite e forme di persuasione meno socialmente accettate e chiaramente ingannevoli o truffaldine;

– la società, come “partner occulto” o indiretto del processo di conversione, che sta sullo sfondo ma che certe ricerche cercano di far venire in primo piano, mostrando in particolare come la società complessa e globalizzata generi incertezze e tensioni e quindi renda più facile la crisi che sboccherà nella conversione, e come certi network – all’opera, nonostante tutto, anche nella società contemporanea – rendano invece la conversione, specie a un gruppo controverso, meno probabile.

Soltanto negli ultimi anni è emersa una maggiore attenzione verso un “non detto” nelle teorie della conversione che riguarda i sistemi di credenza e le pratiche che sono sia proposte al convertito, sia da questi abbandonate al momento della conversione. La teoria dei social network dev’essere certamente integrata tenendo conto del fatto che ognuna fra le numerosissime proposte religiose in concorrenza fra loro ha qualche cosa di specifico e di unico da offrire: chi diventa Testimone di Geova difficilmente aderirà alla Chiesa di Scientology, e viceversa. Ma il principale “non detto” riguarda il punto di partenza, il sistema di credenze da cui il convertito parte e che abbandona per acquisire la nuova identità religiosa. Non sempre – come rivelano le numerose ricerche condotte “sul campo” – il convertito a una nuova religione è semplicemente un agnostico, o una persona totalmente disinteressata ai problemi religiosi. Spesso fa parte, o almeno è stato educato, in una religione che nel suo Paese è maggioritaria. Perché l’abbandona?

Sembra quindi necessario costruire un modello che tenga conto anche di una quarta dimensione, di un terminus a quo costituito dal sistema di credenze che chi si converte si lascia alle spalle. Dal punto di vista pastorale – considerato il numero di persone che abbandonano quotidianamente la Chiesa Cattolica (specie, ma non solo, in America Latina) – questa analisi è particolarmente interessante, perché mette in luce gli elementi di debolezza che spiegano perché un certo numero di persone, anche attive e praticanti, lasci ogni giorno il cattolicesimo.

Personalmente ritengo che un modello veramente interdisciplinare della conversione – specialmente (ma non solo) ai nuovi movimenti religiosi, e anche in questo caso non esaminando solo i tre o quattro più noti o controversi – debba tenere conto delle credenze di partenza di chi si converte – la “quarta dimensione” nascosta – e, in particolare, del ruolo che gioca una caratteristica diffusa dell’atteggiamento contemporaneo verso la religione: il relativismo. Per limitarsi al mio Paese, la vera “nuova religione” degli italiani – che è andata lentamente emergendo negli ultimi due secoli – non è quella dei Testimoni di Geova, che pure vantano in Italia la loro maggiore presenza europea, e neppure un culto orientale: è appunto il relativismo, la convinzione che non esista la verità, particolarmente in campo religioso. Secondo diverse indagini sociologiche, da metà a due terzi degli italiani si riconosce nella frase “non esiste una vera religione, ogni religione è vera per chi ci crede”[35]. Per molti quest’affermazione apparirà ovvia: non è forse evidente che tutte le religioni sono uguali? La risposta – per esempio – di Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate è che, per quanto siamo affezionati al principio della libertà religiosa, le cose non stanno così: “La libertà religiosa non significa indifferentismo religioso e non comporta che tutte le religioni siano uguali”[36].

A differenza dello scetticismo – secondo cui non esiste nessuna verità, di nessun tipo – il relativismo nega l’esistenza della verità nel senso proprio, assoluto e filosofico del termine; non nega, invece, l’esistenza di verità “relative”. La sua caratteristica generale consiste nel “considerare la verità come qualche cosa di dipendente da una variabile indipendente che, come tale, la determina”. Questa “variabile indipendente” potrà essere costituita dalla ragione umana, dal sentimento, dalla cultura, dalla società, dalla tecnica, perfino dal partito o dalla razza, dando così origine a tutta una gamma di possibili relativismi su cui si sono andate costruendo le ideologie degli ultimi secoli[37]. Notiamo che la “variabile indipendente” che determina la verità relativa può essere la ragione umana, per cui il relativismo non esclude il razionalismo e la fiducia ingenua nei poteri della ragione e della scienza. Al contrario spesso il razionalismo finisce per “sboccare nel relativismo, nel senso che solamente è vero quanto si relaziona gnoseologicamente in forma diretta ed efficace con la ragione umana, variabile indipendente in funzione della quale si determina la verità” (relativa)[38]. Questa osservazione spiega perché è possibile che – nella mentalità dell’uomo moderno e contemporaneo – il relativismo e il razionalismo avanzino spesso insieme. Paragonando, in occasione dell’Anno Sacerdotale dedicato a San Giovanni Maria Vianney (1786-1959), i tempi del Curato d’Ars ai nostri Benedetto XVI ha osservato: “Se allora c’era la ‘dittatura del razionalismo’, all’epoca attuale si registra in molti ambienti una sorta di ‘dittatura del relativismo’. Entrambe appaiono risposte inadeguate alla giusta domanda dell’uomo di usare appieno della propria ragione come elemento distintivo e costitutivo della propria identità. Il razionalismo fu inadeguato perché non tenne conto dei limiti umani e pretese di elevare la sola ragione a misura di tutte le cose, trasformandola in una dea; il relativismo contemporaneo mortifica la ragione, perché di fatto arriva ad affermare che l’essere umano non può conoscere nulla con certezza al di là del campo scientifico positivo”[39].

Dal relativismo come posizione filosofica generale – anche se raramente consapevole e tematizzata – derivano poi i diversi relativismi, al plurale. Se non esiste la verità, non esisteranno neppure le verità: non esisteranno verità morali (valori), non esisteranno verità politiche o verità di dottrina sociale (la politica sarà soltanto l’arte del possibile); soprattutto – giacché, per dirla con Karl Marx (1818-1883), “la critica della religione è la radice di ogni critica” – non esisteranno verità religiose, e la religione sarà una questione di mera preferenza psicologica, occasionale, sentimentale, culturale.

Il relativismo, naturalmente, ha un rapporto con la società complessa e con la globalizzazione, nel senso che l’esposizione a messaggi contraddittori ingenera facilmente una reazione prima facie relativistica. Non mi propongo, in questa sede, di svolgere una critica filosofica del relativismo. Vorrei invece mettere in luce come l’ascesa del relativismo abbia costituito un fattore cruciale per la facilità della conversione, specialmente ai nuovi movimenti religiosi.

b) Conversione e relativismo: tre tipi di relazione

a) Il relativismo crea, anzitutto, un clima generale che predispone le persone a cambiare religione – e più in generale sistema di orientamento culturale e morale – sulla base delle variabili più diverse. Quando viene meno l’idea secondo cui esiste una verità cui è insieme ragionevole e necessario aderire si apre la strada a una vasta mobilità culturale e religiosa. In un’indagine americana di qualche anno fa tra le ragioni della conversione a un’altra religione la prima motivazione indicata è stata il matrimonio (24%): si è preferito adottare la religione del coniuge. L’11% ha semplicemente dichiarato di avere scelto la comunità religiosa con l’edificio di culto più pratico e vicino in occasione di un cambio di residenza; molti altri motivi di natura – apparentemente – futile o occasionale sono stati menzionati, come la disponibilità di parcheggi. Solo il 14% degli intervistati (cioé tra uno e due su dieci) ha dichiarato di avere cambiato confessione religiosa per ragioni dottrinali, o perché convinta che gli insegnamenti della nuova confessione fossero più “veri” o validi di quelli della comunità abbandonata[40].

È interessante notare che, secondo lo stesso studio, nel mercato delle conversioni religiose instaurato dall’ascesa del relativismo la Chiesa Cattolica sembrava avere poco da guadagnare. Passare al protestantesimo era nove volte più comune che convertirsi al cattolicesimo. Giacché la Chiesa Cattolica è ormai la confessione di maggioranza relativa negli Stati Uniti, si deve credere che molti non cattolici sposino un coniuge cattolico o si trasferiscano a vivere nelle vicinanze di una parrocchia cattolica, magari perfino dotata di buoni parcheggi. Le ragioni del saldo negativo della Chiesa Cattolica devono quindi essere di ordine dottrinale e non pratico: nonostante tutto, la Chiesa Cattolica conserva un tipo di “pretesa di verità” che la rende un porto di approdo poco appetibile nel mare tempestoso del relativismo.

b) Il clima generale della società complessa che rende più facile cambiare religione non spiega ancora perché alcune nuove religioni abbiano più successo delle vecchie. Si parla più spesso – e con buone ragioni statistiche – di chi si converte al Mormonismo o alla Soka Gakkai che non di chi diventa presbiteriano o metodista. Una prima spiegazione – che riguarda precisamente le “sette” di origine cristiana più diffuse come i Testimoni di Geova o i mormoni, e insieme le nuove forme protestanti come le molte denominazioni dell’arcipelago pentecostale – è piuttosto semplice. Le “nuove” religioni perseguono attivamente il proselitismo a spese di qualunque altro gruppo religioso, mentre le “vecchie” religioni non considerano di bon ton ricercare attivamente la conversione di membri di confessioni storicamente o culturalmente vicine. Il mare, in altre parole, è pescoso: ma non tutti vanno a pesca. E l’esca di cui le “nuove” religioni si servono è precisamente la realtà di cui i pesci sperduti nel mare del relativismo avvertono oscuramente il bisogno: la verità.

Riemergono qui i lineamenti di una possibile critica antropologica del relativismo: senza la verità l’uomo non può vivere. Per quanto esprima opinioni relativistiche agli intervistatori dei sondaggi sociologici, l’uomo del nostro tempo continua più o meno inconsapevolmente ad avvertire una sete di verità. La pedagogia delle “nuove” religioni – particolarmente, ancora, di quelle di origine di cristiana: tipico è il caso dei Testimoni di Geova – parte precisamente da una descrizione a fosche tinte della confusione e dei guasti del relativismo moderno, in cui “non si è più sicuri di nulla” – una descrizione in cui molti immediatamente si riconoscono – per insinuare poi che fortunatamente un’isola di certezze assolute e incrollabili esiste ancora. È la “nuova” religione cui si propone di convertirsi, dove non c’è confusione – e neppure discussione – teologica, ma soltanto granitica unità intorno all’ideologia.

Da questo punto di vista l’apparente debolezza della “setta” è in realtà la sua forza: più l’ideologia è semplice, più avrà il gusto dell’assoluto per l’uomo disturbato dal relativismo. Per converso quella che potrebbe sembrare la forza di un nuovo movimento religioso rischia talora di convertirsi in debolezza. I mormoni e alcune denominazioni pentecostali negli ultimi anni, attraverso un processo di “inculturazione”, hanno visto sorgere negli Stati Uniti al loro interno un vivace dibattito intellettuale. Ma le autorità di questi movimenti spesso cercano di non far giungere questo dibattito a conoscenza dei convertiti potenziali e attuali in Europa e nel Terzo Mondo, convinte, a ragione, che un carattere eccessivamente problematico dell’annuncio missionario comprometterebbe la sua efficacia proselitistica.

c) Le ultime osservazioni sembrano a prima vista inapplicabili al successo di nuovi movimenti religiosi (o magici)[41] che non svolgono una evidente attività di proselitismo e anzi amano presentarsi come esoterici o semi-segreti. Certamente si tratta di movimenti diversi. Tuttavia, anzitutto, non si deve immaginare che il proselitismo avvenga sempre mediante tecniche evidenti o perfino grossolane. Il proselitismo – come ogni forma di seduzione – può giocare altrettanto bene sul velare che sullo svelare: dopo tutto, a chi non piace essere messo a parte di un segreto riservato a pochi? Se i movimenti che esercitano il loro proselitismo in modo evidente e aggressivo hanno una sorta di relazione inversa con il relativismo – ne mostrano i mali per presentarsi come isole di verità –, i movimenti di tipo esoterico hanno invece con la mentalità relativistica una relazione diretta. I movimenti magico-esoterici invitano a “cavalcare la tigre” della società complessa e del relativismo moderno, che incoraggiano e blandiscono. Sì – affermano questi gruppi –, tutte le religioni e le tradizioni sono relativamente vere, ma proprio questo loro carattere relativo ne svela la natura essoterica e la necessità di scendere ad un livello esoterico dove la loro fondamentale o “trascendentale” unità si rivelerà all’iniziato. Naturalmente – giacché questa unità è mitologica: come conciliare, per esempio, resurrezione cristiana e reincarnazione orientale? – la presunta “unità trascendentale” delle religioni si svelerà rapidamente come semplice sincretismo. Ma di questo i moderni banditori dei movimenti magico-esoterici raramente hanno paura.

* * * *

Naturalmente, il modello interdisciplinare che ho proposto – che dà rilievo in particolare alla categoria del relativismo – non pretende affatto, ingenuamente, di costituire l’“ultima parola” sul difficile problema del perché il fenomeno della conversione appaia oggi più diffuso, e anche più rilevato e studiato, che in altre epoche. Presuppone, al contrario, che ciascuno degli altri modelli – fenomenologici, storici, psicologici, antropologici e sociologici – apporti elementi validi e spiegazioni utili, purché non lo si consideri in modo monocausale come l’unica chiave di un fenomeno che è invece complesso. Proprio questo intende essere il significato e il senso del mio contributo: nessuna spiegazione monocausale può essere adeguata. La conversione è un fenomeno complicato. Non solo diversi tipi di conversione hanno diverse dinamiche e cause, ma anche conversioni dello stesso tipo possono obbedire a logiche e a causalità diverse. Le mie osservazioni intendono suggerire che la conversione non è soltanto un fenomeno o un problema sociale, ma è anche culturale – per tacere della sua dimensione teologica –, e pertanto lo studio delle conversioni non può prescindere dal contesto più generale della crisi culturale dell’uomo contemporaneo e dei problemi della società complessa e della globalizzazione.

Da ultimo, vorrei ricordare a me stesso e a chi mi ha seguito che la conversione è anche un mistero, che non può essere completamente compreso dalle categorie sociologiche. Da sociologo, vorrei insistere sul fatto che la sociologia di per sé non risolve nessun problema teologico o pastorale e può dare contributi utili solo se si presenta con la necessaria umiltà metodologica. Ultimamente, vale anche per i sociologi il richiamo di Benedetto XVI nel discorso all’udienza generale del 1° luglio 2009: “A fronte di tante incertezze e stanchezze (…) è urgente il recupero di un giudizio chiaro ed inequivocabile sul primato assoluto della grazia divina, ricordando quanto scrive san Tommaso d’Aquino [1225-1274]: ‘Il più piccolo dono della grazia supera il bene naturale di tutto l’universo’ (Summa Theologiae, I-II, q. 113, a. 9, ad 2)”[42].

 



[1]Thomas Robbins, Cults, Converts and Charisma. The Sociology of New Religious Movements, Sage, Londra 1988, p. 63.

[2]Ibid., p. 63.

[3]Cfr. Manuel J. Gaxiola-Gaxiola, “Latin American Pentecostalism: A Mosaic within a Mosaic”, Pneuma: The Journal of the Society for Pentecostal Studies, 13, 2 (Autunno 1991), pp. 107-129 (p. 107).

[4]Cfr. sul punto R. Andrew Chesnut, Competitive Spirits. Latin America’s New Religious Economy, Oxford University Press, New York - Oxford 2003.

[5]Sui problemi di terminologia cfr. il mio “Nel paese del punto esclamativo: ‘sette’, ‘culti’, ‘pseudo-religioni’ o ‘nuove religioni’?”, Studia Missionalia, n. 41 (1992) (numero speciale su Religious Sects and Movements), pp. 1-26.

[6]Cfr. “Current Research: New Findings on Religious Behaviour and Attitudes”, Religion Watch: A Newsletter Monitoring Trends in Contemporary Religion, 7-9 (luglio-agosto 1992), p. 5.

[7]Cfr. per es. David G. Bromley (ed.), Falling from the Faith. Causes and Consequences of Religious Apostasy, Sage, Londra 1988.

[8] Benedetto XVI, enciclica Caritas in veritate (2009), n. 42.

[9]Gerardus Van Der Leeuw, La Religion dans son essence et ses manifestations. Phénoménologie de la religion, Payot, Parigi 1970, pp. 517-518. Si tratta qui di una conversione “verticale”: cfr. Luigi Berzano - Eliana Martoglio, “Conversion as a New Lifestyle: An Exploratory Study of Soka Gakkai in Italy”, in Giuseppe Giordan (a cura di), Conversion in the Age of Pluralism, Brill, Leiden - Boston 2009, pp. 213-241 (pp. 219-220).

[10]John Lofland - L. Norman Skonovd, “Conversion Motifs”, Journal for the Scientific Study of Religion, vol. 20, n. 4 (1981), pp. 373-385; degli stessi autori: “Patterns of Conversion”, in Eileen Barker (a cura di), Of Gods and Men. New Religious Movements in the West, Mercer University Press, Macon (Georgia) 1983, pp. 1-24.

[11]Per un riesame della tipologia di Lofland e Skonovd alla luce delle teorie della rational choice cfr. C. David Gartrell - Zane K. Shannon, “Contacts, Cognitions and Conversions: A Rational Choice Approach”, Review of Religious Research, vol. 27, n. 1 (1985), pp. 32-48.

[12]Cfr. Robert Merton, “Social Structure and Anomie”, American Sociological Review, vol. 3 (1938), pp. 672-682.

[13]David Aberle, “A Note on Relative Deprivation Theory as Applied to Millenarian and Other Cult Movements”, in William Lessa - Evon Vogt (a cura di), A Reader in Comparative Religion. An Anthropological Approach, 3a ed., Harper & Row, New York 1972, pp. 527-531.

[14]Cfr. Bryan Taylor, “Conversion and Cognition: An Area for Empirical Study in the Microsociology of Religious Knowledge”, Social Compass, vol. 23 (1976), pp. 5-22; e già Alan Blum - Peter McHugh, “The Social Ascription of Motive”, American Sociological Review, vol. 36 (1971), pp. 98-109.

[15]James Beckford, The Trumpet of Prophecy. A Sociological Study of Jehovah’s Witnesses, Basil Blackwell, Oxford 1975.

[16]David E. Van Zandt, Living in the Children of God, Princeton University Press, Princeton 1991.

[17]Tra i numerosi contributi dello storico svizzero, uno dei punti di partenza è lo studio di Jean-François Mayer, “Analisi di alcune ragioni del successo dei nuovi movimenti religiosi”, in M. Introvigne – J.-F. Mayer - Ernesto Zucchini, I nuovi movimenti religiosi. Sette cristiane e nuovi culti, Elledici, Leumann (Torino) 1990, pp. 41-52.

[18]Cfr. il mio Il lavaggio del cervello: realtà o mito?, Elledici, Leumann (Torino) 2002.

[19]David A. Snow - Richard Machalek, “On the Presumed Fragility of Unconventional Beliefs”, Journal for the Scientific Study of Religion, vol. 21, n. 1 (1982), pp. 15-26.

[20]Cfr. David G. Bromley - Anson D. Shupe - Joseph C. Ventimiglia, “Atrocity Tales, the Unification Church and the Social Construction of Evil”, Journal of Communication, vol. 29, n. 3 (1979), pp. 42-53; degli stessi autori: “The Role of Anedoctal Atrocities in the Social Construction of Evil”, in David G. Bromley - James T. Richardson (a cura di), The Brainwashing/Deprogramming Controversy. Sociological, Psychological, Legal and Historical Perspectives, Edwin Mellen, New York 1983, pp. 139-162.

 

[21]Eileen Barker, The Making of a Moonie: Choice or Brainwashing?, Basil Blackwell, Oxford 1984, p. 147. Per ulteriori discussioni sul punto cfr. Christopher Lamb - M. Darroll Bryant (a cura di), Religious Conversion. Contemporary Practices and Controversies, Cassell, Londra - New York 1999.

[22] Cfr. Ben Zablocki - Thomas Robbins (a cura di), Misunderstanding Cults. Searching for Objectivity in a Controversial Field, University of Toronto Press, Toronto 2001; e Dick Anthony - M. Introvigne, Le Lavage de cerveau: mythe ou réalité?, L'Harmattan, Parigi 2003.

[23]Cfr. Marc Galanter, Cults. Faith, Healing, and Coercion, Oxford University Press, New York - Oxford 1987.

[24]Cfr. James T. Richardson, “The Active vs. Passive Convert: Paradigm Conflict in Conversion/Recruitment Research”, Journal for the Scientific Study of Religion, vol. 24, n. 2 (1985), pp. 163-179.

[25]John Lofland - Rodney Stark, “Becoming a World-Saver: A Theory of Conversion to a Deviant Perspective”, American Sociological Review, vol. 30 (1965), pp. 862-875 (p. 874).

[26]John Lofland, “Becoming a World-Saver Revisited”, American Behavioural Scientist, vol. 20 (1977), pp. 805-818.

[27]Thierry Mathé, Le Bouddhisme des Français. Contribution à une sociologie de la conversion, L’Harmattan, Parigi 2005.

[28]Cfr. Arthur L. Greil - David R. Rudy, “What Have We Learned from Process Models of Conversion? An Examination of Ten Studies”, Sociological Focus, vol. 17, n. 4 (1984), pp. 306-323.

[29]David A. Snow - Louis A. Zurcher - Sheldon Ekland-Olson, “Social Networks and Social Movements: a Microstructural Approach to Differential Recruitment”, American Sociological Review, vol. 45 (1980), pp. 787-801.

[30]Cfr. per esempio Ernest Volinn, “Eastern Meditation Groups: Why Join?”, Sociological Analysis, vol. 46, n. 2 (1985), pp. 147-156.

[31]Cfr. su questo punto Rodney Stark - Lynn Roberts, “The Arithmetic of Social Movements”, Sociological Analysis, vol. 43, n. 1 (1982), pp. 53-68.

[32]Cfr. Robert Wuthnow, Meaning and Moral Order. Explorations in Cultural Analysis, University of California Press, Berkeley 1987. Cfr. pure sul punto Henri Gooren, “Religious Market, Theory and Conversion: Towards an Alternative Approach”, Exchange, vol. 35 (2006), pp. 39-60.

[33]Roy Wallis - Steven Bruce, “Network and Clockwork”, Sociology, vol. 16, n. 1 (1982), pp. 102-107 (p. 104).

[34]Ibid., p. 106.

[35]Cfr. G.. Giordan, “Introduction: The Varieties of Conversion Experiences”, in G. Giordan (a cura di), Conversion in the Age of Pluralism, cit., pp. 2-10.

[36] Benedetto XVI, enciclica Caritas in veritate (2009), n. 55.

[37]Così Arturo Damm Arnal, Falacias Filosóficas, MiNos, Città del Messico 1991, pp. 38-48 (p. 38).

[38]Ibid., p. 63.

[39] Benedetto XVI, Udienza Generale, 5 agosto 2009.

[40] Cfr. “Current Research: New Findings on Religious Behavior and Attitudes”, cit., p. 5.

[41]Ho introdotto la nozione di “nuovo movimento magico”, che oggi molti utilizzano, nel mio Il cappello del mago. I nuovi movimenti magici dallo spiritismo al satanismo, SugarCo, Milano 1990. Per le “conversioni” a movimenti magici ed esoterici cfr. Antoine Faivre (a cura di), Métamorphose et conversion, Arché, Milano 2008.

[42] Benedetto XVI, Udienza generale, 1° luglio 2009.