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Due centenari s’incontrano. Augusto Del Noce e il magistero di Leone XIII

di Massimo Introvigne
Relazione al convegno “Augusto Del Noce: cultura e politica di fronte al suicidio della Rivoluzione” – Pistoia, 16 maggio 2010

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 Due centenari s’incontrano

Il 2010 segna il primo centenario della nascita di Augusto Del Noce (1910-1989) e il secondo centenario della nascita di Leone XIII (1810-1903). Li ricordo insieme sia per la coincidenza cronologica, già di per sé molto significativa, sia perché la riflessione di Del Noce su Leone XIII è cruciale per intendere alcuni aspetti del suo pensiero. In particolare, la valutazione del filosofo nato a Pistoia sulle encicliche di papa Gioacchino Pecci definisce sia gli elementi di contiguità sia quelli di differenza di Del Noce rispetto alla scuola cattolica contro-rivoluzionaria, dal cui punto di vista esplicitamente si pone Alleanza Cattolica e mi pongo io in questo contributo, e che nasce come critica alla Rivoluzione francese intendendola però come parte di un processo di progressiva scristianizzazione dell’Europa che né è iniziato né finisce con il 1789.

Se la consapevolezza nel mondo cattolico per il centenario di Del Noce è certamente insufficiente, più grave ancora è lo scarso interesse che circonda la ricorrenza relativa a Leone XIII, nonostante l’esplicito invito di Benedetto XVI a interessarsene con l’annuncio di un viaggio a Carpineto Romano, città natale del suo predecessore, previsto per il 5 settembre 2010. Le ragioni di questo disinteresse sembrano essere sostanzialmente tre. La prima è la riduzione del ricchissimo magistero di Leone XIII a un unico documento, l’enciclica Rerum novarum del 1891, che però, letta al di fuori del contesto complessivo dell’insegnamento di papa Pecci, non può che essere da un lato fraintesa dall’altro celebrata sempre più stancamente. La seconda è lo scarso amore della scuola cattolico-democratica, tuttora influente in tanti ambiti culturali, per Leone XIII, nonostante il riferimento obbligatorio alla Rerum novarum. Leone XIII è infatti anche il papa che ha sottolineato l’eccellenza della civiltà cristiana medievale, la malizia del «diritto nuovo» moderno, l’intransigente opposizione alla massoneria, il riferimento obbligatorio per i cattolici nella filosofia a san Tommaso d’Aquino (1225-1274). La terza è che gli stessi oppositori più conseguenti dei cattolici democratici, gli esponenti della scuola contro-rivoluzionaria, se si sono ampiamente serviti del magistero di Leone XIII di rado hanno veramente amato papa Pecci. Questo atteggiamento appare nel modo più tipico nel maggiore esponente della scuola contro-rivoluzionaria del XX secolo, Plinio Corrêa de Oliveira (1918-1995). Le sue opere sono ricche di citazioni da Leone XIII. Eppure in una conferenza inedita – forse rimasta inedita non a caso, considerata la venerazione che l’autore aveva per il pontificato romano in genere – Corrêa de Oliveira stigmatizza «la vanagloria rispetto alla sua famiglia» (Pecci) di Leone XIII, la paragona a quella di papa Innocenzo III (1160-1216) la quale, secondo una rivelazione privata, avrebbe condannato questo pontefice medievale a «rimanere in purgatorio fino alla fine del mondo», e definisce «un incubo» la condizione dei contro-rivoluzionari sotto il pontificato di Leone XIII che, afferma, «può essere simbolizzato dal ralliement» (Corrêa de Oliveira s.d.).

L’allusione, qui, è al ralliement alla Repubblica voluto nel 1892 da Leone XIII, che con l’enciclica Au milieu des sollicitudes incita i cattolici francesi, nella loro grande maggioranza monarchici, a collaborare lealmente con le istituzioni repubblicane purché siano salvaguardati alcuni princìpi fondamentali in tema, in particolare, di libertà di educazione. La rottura del 1892 è drammatica e divide in Francia anche i cattolici più fedeli al Papa — per esempio, all’interno stesso della scuola contro-rivoluzionaria, René de la Tour du Pin (1834-1924) rifiuta il ralliement mentre Albert de Mun (1841-1914) lo accetta —, spacca le famiglie e costituisce un passaggio traumatico senza il quale non si spiegano tutte le traversie seguenti del mondo cattolico conservatore e tradizionalista francese, fino alla vicenda di monsignor Marcel Lefebvre (1905-1991). Il ralliement ha certo conseguenze negative sul piano storico e politico. Contrariamente alle attese di Leone XIII, non modera la Repubblica, che anzi accelera la deriva laicista e anticlericale fino agli eccessi fanatici del presidente del Consiglio Émile Combes (1835-1921), mentre all’interno della Chiesa alcuni cattolici rallié passano dall’accettazione del sistema repubblicano a quella dei princìpi ispiratori della Rivoluzione francese, determinando così la condanna nel 1910 da parte di san Pio X (1835-1914) del movimento Sillon, fondato da Marc Sangnier (1873-1950).

Non si può tuttavia non considerare che il ralliement è anche figlio di una questione dinastica divenuta intrattabile. Per gran parte dell’Ottocento i contro-rivoluzionari e la Santa Sede avevano sostenuto la branca primogenita dei Borboni di Francia, rappresentata da un contro-rivoluzionario convinto e coerente come Enrico V, conte di Chambord (1820-1883), mentre la branca cadetta degli Orléans era stata il simbolo stesso di una monarchia rivoluzionaria, fredda verso la Chiesa e filo-massonica. La branca primogenita si estingue nel 1883 con la morte di Enrico V senza figli. La grande maggioranza dei monarchici francesi riconosce come nuovi legittimi pretendenti al trono di Francia, senza entusiasmo, gli Orléans. Esistono, certo, i cosiddetti «bianchi di Spagna», monarchici che rifiutano la successione orléanista e ritengono che i legittimi eredi di Enrico V siano i Borbone di Spagna della branca detta «carlista». Benché riescano a produrre opere raffinate che giustificano le loro pretese dal punto di vista del diritto dinastico francese, i «bianchi di Spagna» restano però una piccola minoranza, una «cappella insignificante» (Augé 1995, 156) secondo le parole stesse di uno dei loro maggiori esponenti nel secolo XX, lo storico Guy Augé (1938-1994). La loro corrente diventerà nuovamente significativa, per una serie di circostanze, solo dopo la Seconda guerra mondiale. Così, tra orléanisti in odore di massoneria e «bianchi di Spagna» politicamente irrilevanti, Leone XIII – su cui peraltro è stata pure emessa l’ipotesi secondo cui avrebbe pensato al ralliement già durante la vita del conte di Chambord –, nove anni dopo la morte di Enrico V, conclude che nessuna delle due alternative è praticabile, ricorda la dottrina tradizionale secondo cui la dottrina sociale della Chiesa non è legata di per sé ad alcuna forma di governo e sceglie il ralliement alla Repubblica.

Rimane tuttavia vero che chi considera il ralliement una catastrofe ammette di solito il carattere dottrinalmente impeccabile dell’enciclica Au milieu des sollicitudes – in effetti, per seguire la dottrina sociale della Chiesa non è obbligatorio essere monarchici, né l’enciclica, a differenza dei cattolici democratici del Sillon, insinua che sia obbligatorio non esserlo – e apprezza il magistero di Leone XIII. Al contrario, chi vede il ralliement come un atto dovuto, semmai troppo tardivo, si trova spesso in prima linea fra coloro che eliminano dall’orizzonte culturale dei cattolici contemporanei il magistero di papa Pecci, di solito attraverso la strategia che consiste nel ridurlo alla sola Rerum novarum. In questo panorama, dove si situa Del Noce?

L’apprezzamento di Del Noce per Leone XIII

Del Noce incontra la centralità di Leone XIII attraverso un lunghissimo sodalizio intellettuale con Étienne Gilson (1884-1978). Per Del Noce Gilson non è solo uno storico della filosofia, ma un pensatore originale che, ove fosse stato seguito, avrebbe potuto arginare i guai del progressismo cattolico o, per dirla con il filosofo di Pistoia, del «neomodernismo» (Del Noce 2005, 31). Su Gilson, scrive Del Noce, «è opinione diffusa, qui in Italia, che sia uno storico della filosofia, piuttosto che un filosofo; in realtà è un “filosofo attraverso la storia”» (ibid., 33). Qui in verità Del Noce parla anche di se stesso. Anch’egli è considerato da molti un mero storico della filosofia, mentre rivendica di essere un filosofo, e precisamente un «filosofo attraverso la storia». L’importanza di Gilson, per Del Noce, sta nel fatto che «scoprì la verità e la presente attualità del tomismo attraverso l’accertamento di quel che il Dottor Angelico aveva realmente pensato» (ibid.). La questione è di rilievo, e non attiene solo alla storia, precisamente perché ogni forma di resistenza al progressismo per Del Noce deve necessariamente arruolare il tomismo: e deve trattarsi del tomismo di san Tommaso, non di quello manualistico e sterile di tanti neotomisti.

Da questo punto di vista Gilson articola attraverso gli strumenti della storiografia del XX secolo quanto era già stato pensato da qualcuno nel secolo XIX. E quel qualcuno è Leone XIII. Gilson, spiega Del Noce, scopre l’enciclica Aeterni Patris di Leone XIII, che è del 1879, nel 1930, «dato che, per strano che possa parere, non aveva mai prima d’allora letto questa enciclica. Strano, del resto, fino a un certo punto, perché Gilson era di formazione universitaria, della Sorbona, e a quel tempo le encicliche pontificie non solevano esser lette dai filosofi, e spesso neanche dai filosofi cattolici» (ibid., 77: né molto è cambiato nelle università dei giorni nostri). Gilson legge la Aeterni Patris mentre è impegnato nella disputa sulla possibile esistenza di una filosofia cristiana e nella risposta ai laicisti della Sorbona, i quali sostengono che il pensiero cristiano medioevale di cui il docente francese è studioso, per interessante che sia, non appartiene alla filosofia perché è essenzialmente di natura teologica. Grazie al provvidenziale incontro con Leone XIII, Gilson è in grado di rispondere che non si tratta di sottrarre dal pensiero medioevale tutto quanto è strettamente teologico e chiamare il residuo «filosofia cristiana». Al contrario, è cristiana quella filosofia che riconosce il «primato della fede» (Gilson 1960, 248), anzi «il primato della parola di Dio» (ibid., 246), e questo non all’esterno ma all’interno stesso di un pensiero che si presenta come «un progresso a partire da una verità che non è suscettibile di progresso» (ibid., 251). Per Del Noce questa è l’unica possibile filosofia che non rompe l’unità fra fede e ragione, ancorché le distingua e sfugga quindi a ogni accusa di fideismo. La separazione fra filosofia e teologia comporta invece la separazione fra fede e ragione, e quel cedimento al laicismo che nella Chiesa prende la forma del (neo)modernismo.

Del Noce ritiene che il fondamentale risultato raggiunto da Gilson sia possibile solo attraverso una critica di certe angustie e asprezze del neotomismo, il che presuppone un ritorno alla lettera dell’enciclica Aeterni Patris del 1879. Qui infatti si vincola la cultura cattolica a privilegiare una filosofia ad mentem Sancti Thomae Aquinatis. Per Del Noce, «quel ad mentem serve a chiarire l’equivoco delle dispute sulla filosofia cristiana» (Del Noce 2005, 78) e testimonia «la grandezza filosofica di Leone XIII» (ibid.). Leone XIII riporta con san Tommaso nella Chiesa non un insieme di formule ma un metodo: nei termini di Del Noce, in implicita polemica con qualche neotomista, «non tanto una dottrina quanto una maniera di filosofare: e in ogni caso l’aspetto della dottrina si trova in una certa misura posposto a quello della maniera di filosofare» (ibid.).

Gilson nel volume del 1960 Le Philosophe et la théologie, su cui Del Noce spesso ritorna, dà atto a Leone XIII di avere risolto il problema della «filosofia cristiana» cinquant’anni prima che la Sorbona iniziasse a discuterne, e di avere fatto molto di più: papa Pecci ha applicato questo metodo a tutti i principali campi del pensare e dell’agire umano, teorici e pratici. Per comprendere come questo sia avvenuto occorre leggere le encicliche principali di Leone XIII non in ordine cronologico ma nell’ordine che il pontefice stesso ha suggerito nell’enciclica Pervenuti all’anno vigesimo quinto del 19 marzo 1902, pubblicata per il venticinquesimo anniversario della sua elezione a Pontefice. Nell’enciclica il papa ricorda nell’ordine «le [sue] Encicliche sulla filosofia cristiana [Aeterni Patris, 1879], sulla libertà umana [Libertas, 1888], sul matrimonio cristiano [Arcanum Divinae Sapientiae, 1880], sulla setta dei Massoni [Humanum genus, 1884], sui poteri pubblici [Diuturnum, 1881], sulla costituzione cristiana degli Stati [Immortale Dei, 1885], sul socialismo [Quod apostolici muneris, 1878], sulla questione operaia [Rerum novarum, 1891], sui principali doveri dei cittadini cristiani [Sapientiae Christianae, 1890]» (Leone XIII 1902). In un discorso di trent’anni fa Del Noce si chiedeva «perché nessuno in Italia abbia pensato all’edizione delle nove encicliche secondo quell’ordine logico che il Papa aveva fissato» (Del Noce 2005, 77). Nessuno ci ha pensato ancora oggi, e potrebbe essere un modo di dare retta a Benedetto XVI che ha invitato a ricordare Leone XIII in occasione del bicentenario.

Comunque sia, in funzione di questo corpus secondo Gilson – che Del Noce cita e approva più di una volta (ibid., 77; Del Noce 1977, 25) – «Leone XIII prende posto nella storia della Chiesa come il più grande filosofo cristiano del secolo XIX e uno dei più grandi di tutti i tempi» (Gilson 1960, 191). Tutto il Corpus Leonianum è retto dalla Aeterni Patris, perché prima occorre definire il metodo e poi applicarlo: «i programmi di riforma sociale suppongono effettuata questa prima riforma intellettuale, condizione di tutte le altre» (ibid., p. 192). «I vecchi politici cattolici – notava Del Noce nel 1977 – leggevano la Rerum novarum come se fosse isolabile dall’insieme del Corpus Leonianum; coerentemente i nuovi, portando alle conseguenze ultime il difetto di questa linea, hanno del tutto trascurato di leggerla» (Del Noce 1977, 25-26). L’oblio della Rerum novarum è avvenuto «diciamo pure con ragione, perché scissa dal suo fondamento filosofico, dal contesto delle nove encicliche essenziali, e in particolare dall’Aeterni Patris, è destinata a perdere significato» (Del Noce 2005, 77).

Non già che la Rerum novarum, per Del Noce, non sia importante anche nei suoi aspetti strettamente sociali. Al contrario è una «enciclica profetica» (Del Noce 2005, 227) la cui «critica radicale della mentalità utopistica» (ibid., 228) del marxismo e nello stesso tempo di un liberalismo assoluto, secondo cui il mercato risolverà da solo tutti i problemi, appare non – come talora si legge – in ritardo rispetto alla teoria economica dell’epoca, ma al contrario in anticipo e sorprendentemente attuale. Ma, appunto, per cogliere tutte le implicazioni della Rerum novarum è necessario prendere sul serio l’invito della Pervenuti all’anno vigesimo quinto di leggerla dopo altre sette encicliche di Leone XIII, comprese quelle sulla filosofia, sulla massoneria e sul socialismo. Infatti tutta la parte della Rerum novarum sui diritti rispettivi dei datori di lavoro e dei lavoratori, afferma Del Noce, «è legata alla fondamentale tesi dell’antecedenza dell’uomo allo Stato, e questa alla legge naturale e alla metafisica che essa implica» (ibid., 231). «Ora, la rinascita cattolica – incalza ancora il filosofo di Pistoia – deve essere, secondo il pensiero di Leone XIII, inscindibilmente religiosa, filosofica e politica, “politica”, perché richiesta come necessaria per la salvezza anche temporale della società umana, ma questa politica deve appoggiarsi su una filosofia che sia a sua volta preambolo della fede» (Del Noce 1977, 26).

Vi è qui un insegnamento fondamentale di Del Noce, che si ritrova oggi in Benedetto XVI e in particolare nell’enciclica Caritas in veritate del 2009. La dottrina sociale della Chiesa è parte integrante dell’insegnamento della Chiesa Cattolica: ma lo è proprio perché non è solo socio-economica ma anche e anzitutto socio-politica, e perché altro non è che la morale sociale cristiana, la quale presuppone i fondamenti della morale nella verità naturale e rivelata. Il filo che collega Leone XIII, Gilson e Del Noce aiuta a cogliere questa autentica natura della dottrina sociale. Benedetto XVI la ribadisce ancora oggi perché, nonostante la sua reiterata illustrazione da parte del Magistero, non tutti l’hanno compresa. Del Noce ha messo in guardia per tempo sulle conseguenze catastrofiche di questa incomprensione.

Una riserva di Del Noce su Leone XIII

Del Noce, come si vede, è prodigo di elogi su Leone XIII, « il più grande filosofo cristiano del secolo XIX e uno dei più grandi di tutti i tempi» secondo la citata espressione di Gilson che riprende e approva. E tuttavia vi è un aspetto del pensiero di Leone XIII che Del Noce non condivide. Dal mio punto di vista questa critica è particolarmente interessante e, se mi è consentito un accenno autobiografico, mi riporta alla mente numerose conversazioni con il filosofo italiano a Roma e a Savigliano, perché è qui che si situa precisamente la divergenza fra Del Noce e la scuola contro-rivoluzionaria.

Uno dei tanti pensatori oggi ampiamente dimenticati di cui Del Noce si è interessato in modo approfondito è il filosofo idealista francese Léon Brunschvicg (1869-1944). Questo autore, che non aveva simpatia né per la rinascita del tomismo né per la scuola contro-rivoluzionaria, aveva sostenuto che il Corpus Leonianum, a partire da quel suo punto di partenza logico che è la Aeterni Patris, presuppone un giudizio sulla storia che è quello contro-rivoluzionario, mutuato da papa Pecci soprattutto da Joseph de Maistre (1753-1821) e Louis de Bonald (1754-1840) (Brunschvicg 1928, II, 502-503). Secondo Del Noce, Brunschvicg espone la tesi «con una certa tendenziosità, ma con un sostanziale fondo di verità» (Del Noce 1964, 401). È interessante notare che Del Noce discute la questione in un contesto di critica a Jacques Maritain (1882-1973) e al contributo di quest’ultimo al progressismo cattolico. Certo, a proposito di Maritain Del Noce ha invitato a «riconoscere, contro critiche facili, il suo elevatissimo valore, come sistematore filosofico rigoroso di una delle maggiori esperienze spirituali a cavallo fra l’800 e il ‘900, quella di Léon Bloy [1846-1917]» (ibid.). Il filosofo di Pistoia, però, si separa da Maritain precisamente sul punto dell’interpretazione della storia.

Nelle varie fasi che hanno contraddistinto l’itinerario intellettuale di Maritain secondo Del Noce è cambiato – più di una volta – il giudizio sul processo storico del pensiero moderno, ma non è mai cambiata la descrizione di questo processo, che rimane quella contro-rivoluzionaria. Secondo questa descrizione la modernità è un processo di progressiva scristianizzazione che va in modo lineare dal Rinascimento e da Martin Lutero (1483-1546) fino all’illuminismo, alla Rivoluzione francese e al marxismo. Se questo processo sia da combattere – secondo la posizione contro-rivoluzionaria – o se invece occorra cercare qualche forma di composizione e di dialogo è questione su cui Maritain ha cambiato idea più volte. Maritain ha oscillato verso la seconda alternativa, quella del compromesso, in particolare durante e dopo l’epoca dei fascismi, ritenendo – o almeno così ne ricostruisce le motivazioni Del Noce – che una condanna radicale del processo rivoluzionario portasse «inevitabilmente» ad «atteggiamenti pro fascisti»: «non per nulla il principale discepolo recente di Donoso Cortés [Juan, 1809-1853, teorico spagnolo della Contro-Rivoluzione] è stato C.[arl] Schmitt [1888-1985, giurista e filosofo tedesco che aderì a suo tempo al Partito Nazionalsocialista]» (ibid.).

Resta, tuttavia, una visione della storia che secondo Del Noce sarebbe comune alla scuola contro-rivoluzionaria, a Leone XIII, a Maritain ma anche – cambiata di segno quanto al giudizio di valore, cioè intesa come «processo verso la pienezza» anziché «verso la catastrofe» (ibid., 400) – alle prospettive laiciste dominanti. Per Del Noce la visione contro-rivoluzionaria della modernità come processo rivoluzionario lineare che avanza in direzione della scristianizzazione, e dunque «di un processo unitario della filosofia moderna» (ibid.), non solo è in «simmetria» (ibid.) con una lettura laicista uguale e contraria, ma in un certo senso ne dipende in posizione di «subalternità» (ibid., 527). Per usare un’espressione che non è di Del Noce, si potrebbe dire che il filosofo di Pistoia accusa la lettura contro-rivoluzionaria della storia europea – che coinvolge Leone XIII e anche Maritain, non solo nella sua fase giovanile – di regalare la modernità ai laicisti. Dal momento che la modernità appare inevitabilmente vittoriosa, questa lettura preparerebbe dunque la sconfitta dei cattolici. E peggio: una volta presa coscienza della sconfitta, secondo l’idea di «rovesciamento» che è tipica della visione storiografica di Del Noce, la lettura contro-rivoluzionaria della modernità rischierebbe di «rovesciarsi» nel «progressismo». come dimostrerebbero gli itinerari personali di Félicité de Lamennais (1782-1854), per certi versi di Vincenzo Gioberti (1801-1852) e dello stesso Maritain, salvo l’ulteriore passo indietro di quest’ultimo nell’ultimo periodo di vita, come reazione a eccessi progressisti di cui peraltro era egli stesso corresponsabile (ibid.).

Intendiamoci: Del Noce riconosce alla scuola contro-rivoluzionaria il merito di avere colto il carattere profondo di un pensiero che va da Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) a Karl Marx (1818-1883) e oltre. Qui la negazione del peccato originale porta a sostituire la politica alla religione come strumento di salvezza. In questa prospettiva anche Del Noce parla di Rivoluzione con la R maiuscola come processo unitario: «Per varie che possano essere le forme rivoluzionarie, intese in questo senso, – scrive – il loro tratto comune è la correlazione tra l’elevazione della politica a religione e la negazione del soprannaturale. La Rivoluzione, con la maiuscola e senza plurale, è quell’evento unico, doloroso come i travagli del parto (la metafora che torna continuamente nei suoi teorici) che media il passaggio dal regno della necessità a quello della libertà, raffigurato questo, né può essere altrimenti, attraverso la semplice generica negazione delle istituzioni del passato (società senza stato, senza chiese, senza eserciti, senza delitti, senza magistratura, senza polizia…); che genera un avvenire in cui non ci sarà più nulla di simile alla vecchia storia; che, in ciò, è la risoluzione del mistero della storia» (ibid., 362).

È una pagina molto bella, anche dal punto di vista letterario, che conferma la frequentazione dei classici della Contro-Rivoluzione da parte di Del Noce. Dov’è, allora, il dissenso? Il filosofo italiano pensa che le origini della Rivoluzione «con la maiuscola» «siano abbastanza recenti, non antecedenti a Rousseau» (ibid.): quello che viene prima non è tanto rivoluzionario quanto ambiguo. Sullo sfondo c’è qui la polemica con l’opera di Maritain più apprezzata dagli ambienti contro-rivoluzionari, Tre riformatori, il cui sottotitolo – Lutero - Cartesio - Rousseau (Maritain 1967) – indica già l’elemento da cui dissente Del Noce. In verità, il dissenso non riguarda tanto Lutero quanto Cartesio (René Descartes, 1596-1650). Secondo Del Noce quando si applica lo schema contro-rivoluzionario – che poi coincide con quello laicista, salvo come si è accennato il giudizio di valore diametralmente opposto – alla storia della filosofia si arriva fatalmente a quattro conclusioni: «1) l’inizio cartesiano della filosofia moderna; 2) l’opposizione radicale fra Cartesio e Pascal [Blaise, filosofo e teologo francese, 1623-1662]; 3) il fallimento di una nuova scolastica, costruita sull’accordo tra pensiero cristiano e cartesianismo, in Malebranche [Nicolas, C.O., teologo e filosofo francese, 1638-1715]; 4) l’inconsapevolezza, in Vico [Giambattista, filosofo napoletano, 1668-1744], della sua reale posizione storica, per cui la sua filosofia esemplificherebbe, nel modo più perfetto, la sua teoria dell’eterogenesi dei fini» (Del Noce 1964, 402).

Principalmente nel suo libro Il problema dell’ateismo (ibid.), ma anche altrove, Del Noce ha avvertito come suo compito quello di smontare pezzo per pezzo questa visione della filosofia moderna, mantenendone soltanto il primo punto – l’inizio cartesiano –, in quanto anche per il filosofo di Pistoia «ogni filosofia moderna si costituisce nell’orizzonte storico che il cartesianismo ha determinato» (ibid., 405). Tuttavia secondo Del Noce la rappresentazione comune di Cartesio, da manuale scolastico (ma anche da Tre riformatori di Maritain), è ingannevole (Del Noce 1965). In verità nel pensiero del filosofo francese coesistono spunti molto diversi: alcuni, certo, suscettibili di essere continuati in senso anticristiano, altri invece profondamente e sinceramente cristiani. Da questi ultimi parte una versione cristiana della modernità che passa per alcuni aspetti del pensiero di Pascal, la cui contrapposizione a Cartesio è dunque esagerata (e lo è, talora, da Pascal stesso), per Malebranche e per Vico e arriva fino al beato Antonio Rosmini-Serbati (1797-1855).

Del Noce si rende conto che ognuno di questi passaggi è problematico. Affermare per esempio che «Malebranche è il tramite tra il cartesianismo e il pensiero italiano da Vico a Rosmini» (Del Noce 1964, 493) presuppone un’analisi delle critiche di Vico a Cartesio che ne restringa la portata solo ad alcuni aspetti del pensiero cartesiano (Del Noce 1965, 653), e una forte riaffermazione della tesi del «malebranchismo di Vico» (ibid., 652; Del Noce 1964, 481), che di per sé quando Del Noce scriveva non era nuova, ma era stata anche fortemente criticata. E su Pascal il filosofo di Pistoia ammette che «in Pascal il più radicale cartesianismo coincide col più radicale anticartesianismo» (Del Noce 1965, 642). Del Noce stesso ha insegnato che la storia della filosofia è una vera scienza nel senso moderno del termine, le cui acquisizioni possono sempre essere rimesse in discussione da nuovi studi e documenti. Non possiamo certo risolvere qui le complesse questioni legate alla lettura che Del Noce propone di ciascuno dei pensatori che prende in esame.

Possiamo però cercare di capire qual era per Del Noce la posta in gioco. Per lui la linea che va da Rousseau a Marx e oltre fino al 1968 è un processo che non è sbagliato chiamare rivoluzionario, nel senso di una « Rivoluzione, con la maiuscola e senza plurale». Non è neppure sbagliato, a rigore, trovare in Lutero elementi che hanno a che fare con questo processo, i quali coesistono peraltro con aspetti diversi. E tuttavia c’è un altro «processo unitario» (Del Noce 1964, 509) che lega pensatori pure fra loro diversi come il Cartesio cristiano, Pascal, Malebranche, Vico e Rosmini – cui Del Noce è andato progressivamente aggiungendo, attribuendogli un ruolo sempre più importante, il calvinista olandese Arnold Geulincx (1624-1669), in cui peraltro vi è un dubbio «scettico-mistico» (ibid., 492) sulla capacità della ragione di conoscere le cose come veramente sono che apre la strada verso Immanuel Kant (1724-1804). Non vi è tra costoro identità di pensiero ma «identità dell’avversario» (ibid., 508), che è l’ateismo moderno come esito fatale del processo rivoluzionario.

Per Del Noce, dunque, ci sono due modernità: quella rivoluzionaria e quella cristiana. La visione contro-rivoluzionaria della storia accolta da Leone XIII, secondo il filosofo di Pistoia, dimentica o sottovaluta la seconda modernità, la linea che va da Cartesio a Vico e a Rosmini. Così facendo, si espone al rischio di adottare lo schema storico-filosofico dell’avversario laicista e a quello più grave di «rovesciarsi» nel progressismo, una volta constatato che questo avversario ha vinto. Paragonando de Maistre a Vico, Del Noce sottolinea le somiglianze nella critica alla deriva della modernità verso l’ateismo ma afferma che in Vico c’è «non la semplice negazione del moderno, ma l’enucleazione in esso di un momento positivo che non è però quello illuministico e rivoluzionario» (ibid., 528). Rinunciare ad avvalersi di questo «momento positivo» sarebbe il limite della Contro-Rivoluzione e dello stesso Leone XIII.

Dal punto di vista, che è il mio, di un cattolico contro-rivoluzionario che cosa pensare di questa analisi di Del Noce? E – per formulare il quesito in un modo che sarebbe forse piaciuto al filosofo nato a Pistoia – com’è possibile essere contro-rivoluzionari dopo Del Noce? Anzitutto, non si può non riconoscere quanto il confronto intellettuale e le conversazioni con Del Noce abbiano aiutato a crescere la generazione che è alle origini di un’associazione che si dichiara esplicitamente contro-rivoluzionaria come Alleanza Cattolica. Queste conversazioni forse ai più giovani oggi mancano, anche se le provocazioni di Del Noce si ritrovano in autori contemporanei come la storica statunitense di origine tedesca Gertrude Himmelfarb, che in un certo senso va oltre Del Noce distinguendo una linea anticristiana e una compatibile con il cristianesimo anche nello stesso illuminismo, particolarmente in quello britannico (Himmelfarb 2004). Il 12 maggio 2010 a Lisbona Benedetto XVI ha messo in luce il corretto atteggiamento nei confronti di queste provocazioni: «la Chiesa, partendo da una rinnovata consapevolezza della tradizione cattolica, prende sul serio e discerne, trasfigura e supera le critiche che sono alla base delle forze che hanno caratterizzato la modernità, ossia la Riforma e l’Illuminismo. Così da sé stessa [con il Concilio Vaticano II] la Chiesa accoglieva e ricreava il meglio delle istanze della modernità, da un lato superandole e, dall’altro evitando i suoi errori e vicoli senza uscita» (Benedetto XVI 2010).

Del Noce ci ha certamente aiutato a vedere i limiti di qualunque schema che passi da Lutero alla Rivoluzione francese saltando a pié pari le complessità del Seicento e del primo Settecento, così come abbiamo accolto il suo invito a rileggere con simpatia Vico e ad apprezzare le ragioni di Rosmini fino alla sua recente beatificazione, anche se forse abbiamo letto meno Malebranche, per non parlare di Geulincx. Fa parte del legato di Del Noce anche l’attenzione particolare al Seicento e al barocco, sia contro le sue svalutazioni laiciste sia contro le falsificazioni che vorrebbero vedere in quanto nel barocco e perfino in autori come Vico vi è di bello e di grande una paradossale anticipazione dell’illuminismo. Quest’ultima posizione inficia, per esempio, gli elementi d’interpretazione proposti nel catalogo ufficiale delle sei mostre napoletane del 2009-2010 Ritorno al barocco (Sapio, Giannotti e La Marca 2009), mostre splendide dal punto di vista dei pezzi esposti ma discutibili quanto all’interpretazione ideologica proposta al visitatore. Del Noce ci ha appunto insegnato che non si tratta qui di questioni meramente estetiche o turistiche, ma di battaglie culturali di primaria importanza, e questo è oggi tanto più importante in presenza di un pontefice come Benedetto XVI che si autodefinisce «un uomo del barocco» (Benedetto XVI 2008).

Soprattutto, Del Noce con le sue critiche ci ha obbligati a riflettere sulla distinzione fra una nozione cronologica e una ideologica di modernità. Non tutti coloro che sono vissuti e vivono nell’epoca moderna appartengono alla «modernità» come categoria ideologica. Occorre distinguere fra moderno e contemporaneo, e il fatto che Vico termini la sua vita in piena epoca dell’illuminismo non ne fa – benché appunto si vada sostenendo, ma infondatamente, anche il contrario – un illuminista. Ancora, Benedetto XVI invita come si è visto a distinguere nella modernità le domande in parte giuste e le risposte sbagliate, i veri problemi e le false soluzioni, le «istanze», di cui la Chiesa si è fatta carico nella loro parte migliore – ma «superandole» –, e gli «errori e vicoli senza uscita» (Benedetto XVI 2010) in cui la linea prevalente della modernità ha fatto precipitare queste istanze, ultimamente travolgendo e negando quanto nel loro originario momento esigenziale potevano avere di ragionevole e di condivisibile.

Con altrettanta serenità, e senza rinnegare l’affetto e la gratitudine per Del Noce – che da parte sua seguì sempre con grande simpatia e benevolenza le attività di Alleanza Cattolica –, possiamo dire che la sua critica del pensiero contro-rivoluzionario e dell’orizzonte storiografico che fa da sfondo al Corpus di Leone XIII non ci ha indotto ad abbandonare il riferimento tematico alla Contro-Rivoluzione. Per quanto autori di scuola contro-rivoluzionaria abbiano parlato abbastanza male di Cartesio, e talora anche di Pascal e del beato Rosmini, non ci sembra che stia nella critica di questi autori l’essenziale dello schema contro-rivoluzionario. Del resto, l’intreccio fra storia della filosofia e storia della scuola contro-rivoluzionaria è più complesso di quanto possa sembrare a prima vista. Se vi è nella letteratura filosofica di lingua francese un continuatore della linea cara a Del Noce che da certi aspetti di Cartesio va a Malebranche questo è il cardinale Hyacinthe-Sigismond Gerdil B. (1718-1802: cfr. Del Noce 1965, 653). Ora, è nota l’influenza di Gerdil su de Maistre e su tutto il mondo francofono che è alle origini della scuola contro-rivoluzionaria. E dello stesso Rosmini si è potuto scrivere che originariamente «forma il suo pensiero sulla letteratura contro-rivoluzionaria, in specie del conte savoiardo Joseph de Maistre» (Cantoni 2010, 79) – il che, beninteso, non comporta che si possano ascrivere alla scuola contro-rivoluzionaria tutte le opere del beato di Rovereto. Analoghe indagini andrebbero condotte su Vico. La contrapposizione fra il «momento positivo» del moderno di Del Noce e l’«antimoderno» contro-rivoluzionario non è rigida, anzi le due linee s’incontrano e s’intersecano più volte.

Il pensiero contro-rivoluzionario postula essenzialmente che la modernità come ideologia – che è cosa diversa dall’epoca moderna come semplice dato cronologico – abbia un orientamento nettamente prevalente di tipo laicista e anticristiano. Lo stesso Del Noce nelle sue analisi dell’ateismo moderno, del marxismo, del progressismo cattolico e del 1968 ha confermato questo postulato. Il fatto che nello scorrere della storia moderna si siano manifestati anche pensatori cristiani – così come sono apparsi, grazie a Dio, tanti santi – non modifica la conclusione secondo cui il carattere dominante della modernità è la deriva anticristiana e laicista.

La deriva non è «necessaria» di diritto, come pensa un certo tradizionalismo non cristiano sedotto da visioni pagane o orientali della storia come decadenza obbligatoria da un’età dell’oro originaria verso l’età oscura chiamata dai libri sacri induisti Kali Yuga, in cui tutti coloro che hanno la sventura di vivere in una determinata epoca sarebbero volenti o nolenti coinvolti. Questa prospettiva non solo non resiste alla critica dell’«antimoderno» proposta da Del Noce, ma nel suo nucleo profondo nega la libertà umana sottomettendola deterministicamente alla storia e ai suoi «cicli», così da rivelarsi incompatibile con il cristianesimo. Tuttavia, la scuola contro-rivoluzionaria non sostiene – certamente nelle sue articolazioni più mature, ma in realtà già nelle sue origini – la necessità di diritto di una deriva anticristiana della modernità. La constata leggendo la storia, dove la nobilissima resistenza di stili di pensiero alternativi non inficia la conclusione secondo cui la linea della modernità come ideologia si afferma come culturalmente, sociologicamente e politicamente dominante. Si può anche sostenere che la deriva rivoluzionaria e anticristiana obbedisce a una «necessità», non però di diritto ma di fatto: una volta poste certe premesse intellettuali, le conseguenze seguono.

Grati a Del Noce degli elementi di riflessione che ci ha offerto, anche donando con generosità il suo tempo a chi di noi era allora molto giovane, abbiamo pertanto mantenuto il nostro spirito contro-rivoluzionario e «antimoderno». Le sue critiche ci hanno semmai aiutato a precisare il significato di queste espressioni e a evitare trappole e fraintendimenti. A Del Noce possiamo dunque promettere oggi, con affetto, una vigilanza che a fronte di passati errori altrui veglierà a evitare ogni possibile «rovesciamento» dell’antimoderno nell’ultramoderno progressista sulla scia di Lamennais e di un certo Maritain.

E tuttavia la nostra posizione è chiara. Alla scuola di Benedetto XVI ci sforziamo di accogliere le domande della modernità, ma non possiamo accettare le risposte di un’ideologia che comporta il rifiuto della tradizione e l’idolatria del presente. In Portogallo il Papa ha appunto denunciato l’ideologia che «assolutizza il presente, staccandolo dal patrimonio culturale del passato» (Benedetto XVI 2010) e quindi fatalmente finisce per presentarsi «senza l’intenzione di delineare un futuro» (ibid.). Considerare il presente la sola «fonte ispiratrice del senso della vita» (ibid.), il che è l’essenza della modernità come ideologia, porta a svalutare e attaccare la tradizione, che in Portogallo – e non solo – «ha dato origine a ciò che possiamo chiamare una “sapienza”, cioè, un senso della vita e della storia di cui facevano parte un universo etico e un “ideale” da adempiere» (ibid.), strettamente legati all’idea di verità e all’identificazione di questa verità con Gesù Cristo. Dunque «si rivela drammatico il tentativo di trovare la verità al di fuori di Gesù Cristo» (ibid.): un altro elemento costitutivo del dramma della modernità.

Il «“conflitto” fra la tradizione e il presente si esprime nella crisi della verità, ma unicamente questa può orientare e tracciare il sentiero di una esistenza riuscita» (ibid.). In questo conflitto la Chiesa non ha dubbi su da che parte stare. «La Chiesa appare come la grande paladina di una sana ed alta tradizione» (ibid.): parole di Benedetto XVI che richiamano – certo con uno stile e un linguaggio diverso – quelle del suo predecessore san Pio X nella lettera apostolica del 1910, di cui pure ricorre il centenario, Notre charge apostolique secondo cui «i veri amici del popolo non sono né rivoluzionari, né innovatori, ma tradizionalisti» (Pio X 1910, n. 44).

La difesa della verità contro il culto relativistico e anti-tradizionale del presente è una missione «per la Chiesa irrinunciabile» (Benedetto XVI 2010), ripete Benedetto XVI. «Infatti il popolo, che smette di sapere quale sia la propria verità, finisce perduto nei labirinti del tempo e della storia» (ibid.). Sulla necessità di un filo d’Arianna costituito dalla tradizione cattolica per uscire da questi labirinti Del Noce sarebbe stato d’accordo: e di questo filo egli fu anzi impareggiabile tessitore. Anche per questo merita oggi la nostra gratitudine.

Riferimenti

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Benedetto XVI. 2010. Incontro con il mondo della cultura, Centro Cultural de Belém, Lisbona, del 12-5-2010. Disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato http://tinyurl.com/37wsv92.

Brunschvicg, Léon. 1928. Le Progrès de la conscience dans la philosophie occidentale. 2 voll. Presses Universitaires de France, Parigi.

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Corrêa de Oliveira, Plinio. s.d. «San Pio X». Conferenza inedita.

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Del Noce, Augusto. 2005. Pensiero della Chiesa e filosofia contemporanea. Leone XIII / Paolo VI / Giovanni Paolo II. A cura di Leonardo Santorsola. Studium, Roma.

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Sapio, Maria - Maria Teresa Giannotti - Tiziana La Marca (a cura di). 2009. Ritorno al barocco. Da Caravaggio a Vanvitelli. Electa, Napoli.