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Il beato Sebastiano Valfré e i valdesi

di Massimo Introvigne

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 La vita e l’opera del beato Sebastiano Valfré (1629-1710), di cui ricorre nel 2010 il terzo centenario della morte, hanno spesso incrociato i valdesi, la più numerosa minoranza religiosa presente in Piemonte ai suoi tempi. La comunità valdese è, in un certo senso, la mater reformationis e la matrice entro cui si forma la Riforma protestante, che l’esperienza di Valdo anticipa di oltre tre secoli. Pur avendo assorbito nel corso della sua storia tratti tipici di altre forme di protestantesimo, estranei alle sue origini, la comunità valdese mantiene ancora oggi molti dei suoi tratti distintivi. Per comprendere l’interazione del beato Valfré con i valdesi del suo tempo occorre premettere alcuni – sia pure brevissimi – cenni storici, necessari anche perché quella valdese rimane – tanto più fuori del Piemonte – una realtà relativamente poco conosciuta.

Le origini della comunità valdese sono avvolte nella leggenda. Il fondatore si chiama Valdo o Valdesio, e non «Pietro Valdo» come talora si legge ancora su qualche pubblicazione dei nostri giorni. Il nome «Pietro» è aggiunto per ragioni apologetiche parecchi decenni, se non secoli, dopo la sua morte, da valdesi che vogliono dare anche alla loro comunità un «Pietro» come origine, così come la Chiesa cattolica ha l’apostolo san Pietro. Di Valdo si sa con certezza molto poco. È un mercante di Lione che ha verso il 1170 un’esperienza radicale di conversione incentrata sulla povertà e sul desiderio di predicare il Vangelo, e muore probabilmente nel 1206. Il contrasto con l'istituzione ecclesiastica di Valdo e dei suoi seguaci (chiamati «poveri di Lione» e solo più tardi «valdesi») è, con ogni verosimiglianza, più subito che cercato. Nonostante le condanne ecclesiastiche, dopo la morte di Valdo la separazione dei suoi seguaci da Roma non sembra ineluttabile: un gruppo di «poveri di Lione» sotto la guida di Durando d'Osca (di cui pure poco si sa) si riconcilia con il Papa Innocenzo III (1160-1216) nel 1208. Altri «poveri di Lione», non «riconciliati», rimangono ai margini della Chiesa di Roma, in una posizione ambigua, o intraprendono decisamente il cammino della rottura, pur tra dissensi interni (cfr. Molnar 1989).

Nel Duecento e nel Trecento si trovano in un ampio arco di Paesi europei – non soltanto l'Italia e la Francia, ma anche l'Austria, la Germania, la Boemia, perfino la Polonia e l'Ungheria – gruppi di «valdesi», considerati eretici dalla Chiesa di Roma, con alcune idee più o meno analoghe fra loro che si allontanano dall’ecclesiologia cattolica in quanto negano il sacerdozio ministeriale e affidano a laici la guida delle comunità. Il collegamento istituzionale fra questi gruppi non è molto forte, tanto che alcuni propongono di parlare di «valdismi medioevali», al plurale, piuttosto che di un unico movimento valdese (cfr. Merlo 1984; Merlo 1991). Quando alla fine del Trecento e nel Quattrocento troviamo la presenza consolidata di «valdesi» soprattutto in alcune zone dell'Italia e della Francia meridionale ci si può chiedere se si tratti di movimenti in continuità lineare con i primi seguaci di Valdo. Certamente – per quanto riguarda la loro consapevolezza e la loro letteratura – di Valdo questi «valdesi» quattrocenteschi si sentono figli: l'identità è infatti un concetto sociologico e non soltanto né soprattutto storico.

Nel 1532 con il sinodo di Chanforan le comunità valdesi della Francia meridionale e del Piemonte – fiaccate dalle persecuzioni del tardo Quattrocento – aderiscono alla Riforma calvinista. Si tratta di un passaggio fondamentale nella storia valdese, anche se è probabilmente eccessivo sostenere che Chanforan segna (come vorrebbe lo storico Gabriel Audisio) la «morte» del movimento valdese così come il Medioevo lo aveva conosciuto (cfr. Audisio 1989), dal momento che la consapevolezza di una continuità ideale con il movimento iniziato da Valdo rimane forte, ancora fino ai giorni nostri.

L’ingresso dei valdesi nell’orbita calvinista fa da premessa immediata al loro incontro con il beato Valfré. Gli stretti vincoli fra calvinisti francesi – detti all’epoca «ugonotti», parola di origine incerta che deriva probabilmente dal tedesco Eidgenossen, «confederati», cioè «svizzeri», con riferimento alla Confederazione Elvetica – e valdesi del Piemonte preoccupano il re di Francia Luigi XIV (1638-1715). Quest’ultimo teme congiure di eretici contro il suo trono e nel 1685, con la revoca dell’Editto di Nantes – che era stato promulgato da un re ex protestante convertito al cattolicesimo, Enrico IV (1553-1610), nel 1596 – e con l’Editto di Fontainebleau, proibisce la pratica della religione riformata in Francia ed espelle dal Paese i ministri di culto protestanti che non si convertano al cattolicesimo. Un certo numero di ugonotti si rifugia nelle Valli Valdesi, e di lì Luigi XIV teme che cospirino contro il suo regno. Inizia quindi un gioco di pressioni diplomatiche sul duca di Savoia Vittorio Amedeo II (1666-1732, poi re di Sicilia tra il 1713 e il 1720 e re di Sardegna dal 1720), appena salito al trono nel 1684 e legato alla Francia in quanto marito di Anna Maria d’Orléans (1669-1728), nipote di Luigi XIV.

Luigi XIV vorrebbe che Vittorio Amedeo II sopprimesse la religione protestante nei suoi Stati così come il re aveva fatto in Francia. Il duca, però, tergiversa: i valdesi delle valli sono relativamente tranquilli, dopo le sanguinose vicende sfociate nella repressione delle «Pasque piemontesi» nel 1655. Alla fine del 1685 Luigi XIV passa alle minacce. Il 7 dicembre scrive al suo ambasciatore a Torino: «Veggo che le vostre istanze rimangono senza effetto…Voi dovete tuttavia significare al duca che fino a tanto che egli lascierà [sic] vivere gli Ugonotti sui confini de’ suoi Stati, la sua autorità non basterà a impedire la diserzione dei miei sudditi calvinisti; e siccome egli può di per sé far giudizio che io non lo soffrirò, e che l’insolenza di questi nostri mi darebbe dispiacere, così potrebbe intervenire che in me si alterassero quei sentimenti di amicizia, che gli ho finora dimostrato. Porto fiducia che il duca farà su di ciò i più serii riflessi» (Capello 1872, I, 366).

Il 31 gennaio 1686 Vittorio Amedeo II cede alle pressioni francesi e pubblica un editto modellato su quello francese di Fontainebleau che comprende cinque punti. L’esercizio della religione valdese è dichiarato di per sé illecito. Si vietano le riunioni religiose valdesi. Si ordina la distruzione dei templi valdesi. I pastori e i maestri di scuola valdesi hanno quindici giorni per scegliere fra convertirsi al cattolicesimo o andare in esilio. Le madri valdesi devono consegnare i figli al parroco cattolico perché siano educati cattolicamente entro otto giorni (per i nuovi nati, entro otto giorni dalla nascita): le madri renitenti sono condannate a essere battute in pubblico con le verghe, i padri a cinque anni di reclusione. I protestanti stranieri sono espulsi dagli Stati del Duca e si promette una generosa pensione ai pastori che si convertiranno al cattolicesimo.

Con l’editto del 31 gennaio Vittorio Amedeo II si libera dalle pressioni francesi, ma comincia a subire quelle svizzere. La Confederazione Elvetica protesta – spalleggiata da Olanda e Inghilterra –, ma ottiene dal duca solo la promessa di lasciare emigrare in Svizzera quei valdesi che depongano anzitutto le armi e rinuncino a quei progetti di resistenza armata di cui nelle loro valli si comincia a vociferare. Ma questa soluzione – contenuta in un ulteriore editto del 9 aprile 1686 – non soddisfa i valdesi, i quali tentano la strada dell’insurrezione, confidando nel santuario naturale offerto dalle valli, dove già in altre epoche avevano resistito ai soldati sabaudi. Questa volta, però, per aiutare il duca entra in Piemonte il potente esercito francese comandato dal maresciallo di Francia Nicolas Catinat (1637-1712) – lo stesso generale che nelle guerre successive combatterà contro il ducato sabaudo –, e i valdesi non hanno scampo. La guerra – come ogni conflitto civile – è combattuta con ferocia da entrambe le parti nella primavera del 1686. I valdesi, sconfitti, sono incarcerati nelle fortezze e cittadelle di Torino, Carmagnola (Torino), Vercelli, Trino (Vercelli), Asti, Cherasco (Cuneo), Fossano (Cuneo) e Saluzzo (Cuneo), spesso in condizioni di sovraffollamento e di miseria.

È in questa fase particolarmente triste della repressione dei valdesi che entra in scena il beato Valfré. La sua azione ha due obiettivi: uno umanitario, alleviare le sofferenze dei valdesi imprigionati, e uno apostolico: convertirne il più possibile al cattolicesimo. Il beato insiste con l’arcivescovo di Torino mons. Michele Beggiami (1611-1689), e con lo stesso duca Vittorio Amedeo II – di cui è il confessore – perché i due obiettivi siano perseguiti insieme. I valdesi, spiega, sono pieni di pregiudizi nei confronti della religione e del clero cattolico. L’editto e la guerra li hanno ulteriormente esasperati. Solo mostrando loro la misericordia della Chiesa e facendoli entrare in contatto con un clero ben diverso dalle immagini caricaturali dipinte dalla propaganda dei loro pastori sarà possibile convertirli.

Occupandosi personalmente dei valdesi detenuti nella Cittadella di Torino – e inviando agli altri luoghi di prigionia, d’intesa con mons. Beggiami, confratelli oratoriani e sacerdoti secolari esperti e zelanti – il beato Valfré profonde energie di carità davvero instancabili nell’assistenza umanitaria ai detenuti: raccoglie denaro che utilizza per acquistare vestiti, medicine e cibo in modo da sopperire alle carenze delle carceri dell’epoca. Scrive pure al governo e al duca lamentando le pessime condizioni delle prigioni. Su questo punto i più bei riconoscimenti gli vengono dagli stessi valdesi (cfr. Pascal 1923, 67) e dagli inviati dell’Olanda protestante, che pure sono suoi fieri avversari sul piano religioso (cfr. Capello 1872, I, 373 e 404-405). Infatti il beato non si occupa solo di assistenza: per intrattenere gli incarcerati, e insieme per svolgere opera di evangelizzazione, organizza nella Cittadella lunghe dispute in cui dibatte pubblicamente – come riferiscono le fonti «con grande calma, dolcezza e rispetto» (Capello 1872, I, 373) – con i pastori valdesi, mostrando la superiorità della fede cattolica. Quando poi qualcuno si converte al cattolicesimo – e sono molti, 2.226 sui circa 12.000 della Cittadella di Torino (Fava 1984, 201), anche se pochi persevereranno –, chiede ai responsabili militari non di riservargli un trattamento di favore – il che porterebbe con sé il rischio di false conversioni per interesse – ma di separarlo dai non convertiti, creando sezioni della Cittadella riservate ai nuovi cattolici.

Gli accordi del duca con la Svizzera prevedono però che i valdesi che lo desiderino possano partire in esilio verso i Paesi protestanti. Per la verità, dopo la rivolta armata, l’autorizzazione è sospesa: ma su pressioni dell’Inghilterra e dell’Olanda nel 1687 l’esodo riprende. Il beato Valfré si adopera perché nessuno emigri per paura o bisogno: ai valdesi che si sono convertiti al cattolicesimo offre possibilità di costruirsi una nuova vita nel vercellese, se non vogliono tornare nelle loro valli. Il beato è anche coinvolto in una disputa teologica molto delicata. Abbiamo citato la norma dell’editto del duca Vittorio Amedeo II che ha imposto ai genitori valdesi di consegnare ai parroci i figli minori perché siano educati nella fede cattolica. Ai genitori convertiti alla fede cattolica durante la prigionia i figli sono ora ritornati senza problemi. Ma come si deve procedere con i genitori valdesi che vanno in esilio? Le opinioni divergono. Valfré argomenta che i figli consegnati ai parroci dopo l’editto sono in minima parte presso istituti; in maggioranza sono stati accolti da famiglie cattoliche, dove si trovano bene. Anzitutto – sostiene – questi bambini e ragazzi, se riconsegnati ai genitori, dovrebbero seguirli sulla dura e pericolosa via dell’esilio, dove molti forse troverebbero la morte. L’argomento non è capzioso, perché in effetti non pochi valdesi moriranno durante l’esodo. E il beato lo avanza senza riserve mentali: mentre argomenta in questo senso, insiste con l’arcivescovo perché prima di congedare i valdesi che vanno in esilio «se li provvegga di vestiti, perché non muoiano di necessità per istrada» (Capello 1872, I, 386).

Ma per il beato l’argomento più importante è che – se i figli dei valdesi partissero con i genitori – sarebbe loro sottratto il tesoro più prezioso, la fede cattolica. Né il re deve temere di mancare alla parola data, di mantenere salva la vita dei valdesi e dei figli. Al contrario, tenendo i piccoli in Piemonte salva loro la pienezza dei diritti civili come cattolici, la vita dell’anima e forse anche – sottraendoli ai disagi del viaggio verso l’esilio – la vita del corpo. Scrive il beato al duca: «Li Religionarij si sono resi a S.A.R. con  parola e conditione, che si darebbe la vita a loro, loro mogli e figliuoli. Si cerca se S.A.R. senza mancare alla conditione e parola data sij in obbligo grave di non rimettere le piccole creature. Rispondo, che (se il fatto è come sopra) S.A.R. ha obbligazione grave di non rimettere le piccole creature, e che così facendo non manca alla parola data. Mentre non rimettendole osserva la conditione, mentre gli conserva la vita non solo naturale, ma civile ancora. Perché così comanda la carità sotto grave obbligazione per esser di cosa grave. Perché la protettione che devesi havere della Chiesa Cattolica obbliga gravemente S.A.R. a ritenere dette creature sudditi, battezzate» (Pascal 1927, 124-125).

Il tema delle cattolicizzazioni ope legis dei figli dei valdesi del Piemonte è stato riproposto all’attenzione anche di un pubblico non specializzato dal romanzo postumo di Oriana Fallaci (1929-2006) Un cappello pieno di ciliege [sic] (Fallaci 2008), dove la giornalista e scrittrice mette in scena una sua antenata valdese del XIX secolo – forse immaginaria, e della cui esistenza ammette di non avere alcuna documentazione – che avrebbe dovuto nascondere una figlia illegittima (la quale sarebbe la bisnonna della stessa Fallaci). Non ne avrebbe denunciato neppure la nascita allo stato civile, per evitare che in quanto illegittima la piccola le fosse sottratta ed allevata nella fede cattolica. Gli episodi dell’epoca del beato Valfré sono diversi ma analoghi, e sono legati a un clima conflittuale che non nasce tanto all’origine nel Ducato di Savoia quanto nella Francia di Luigi XIV. Si può però immaginare come – se un romanziere del talento della Fallaci volesse scriverne – alla sensibilità dei nostri giorni la separazione dei bambini valdesi dai genitori non apparirebbe meno discutibile.

Peraltro sul trattamento dei circa duemila (Capello 1872, I, 384) bambini valdesi coinvolti nell’episodio le fonti non sono concordi. Per alcuni sarebbero stati trattati dalle famiglie affidatarie come poco più che servitori. Per altri si sarebbero integrati quasi perfettamente, diventando quindi «invisibili», nella società cattolica del tempo. Le dimensioni dell’episodio rimangono relativamente ridotte, perché un buon numero di bambini sarà ritornato alle famiglie valdesi tornate dall’esilio nel 1690. In questa occasione lo stesso beato si mostrerà più possibilista. Dichiarerà contrario alla morale restituire i bambini alle famiglie che li richiedono per farli ritornare al protestantesimo «in disprezzo della fede» cattolica, del tutto lecito restituirli se i genitori valdesi s’impegnano a continuare a far loro frequentare il catechismo cattolico e la Messa, e da valutare singolarmente i casi in cui le intenzioni dei genitori non siano chiare ed esplicite (Capello 1872, II, 490-493).

Partiti i valdesi verso la Svizzera o la Germania, affidati i figli minori a famiglie cattoliche, in teoria nelle valli rimangono solo cattolici – che, sia pure come minoranza, ci si trovavano già prima degli eventi del 1686 – e neo-convertiti al cattolicesimo. Si dubita però che vi siano restati anche valdesi che praticano di nascosto la loro fede protestante. E si teme che, dopo i disastri della guerra, la Chiesa cattolica versi in misere condizioni. Il duca Vittorio Amedeo II il 22 agosto 1687 nomina allora il beato Valfré – con l’accordo dell’arcivescovo – visitatore apostolico nelle valli valdesi. Il beato vi rimane otto giorni, visitando ogni singola chiesa o cappella cattolica e stendendo un minuzioso inventario delle distruzioni e delle necessità di ciascuna. Ma la visita non è solo un’ispezione. Il beato la intende come una missione: predica quasi in ogni villaggio, e si sforza di diffondere la devozione mariana, in particolare tramite il Rosario e le litanie lauretane, e quella eucaristica. Non dimenticando mai le ragioni della carità distribuisce anche aiuti alle famiglie bisognose e visita i suoi figli prediletti, i carcerati, portando come al solito cibo e vestiti. Nella relazione che presenta al duca non si limita a elencare le necessità materiali. Lamenta pure con franchezza il diffuso analfabetismo – contro cui chiede d’istituire scuole – e la qualità insufficiente del clero inviato nelle valli (cfr. Valfré 1687), dove peraltro pochi sacerdoti torinesi vogliono andare. Al contrario, sostiene il beato, nelle valli dovrebbero essere mandati sacerdoti d’eccellenza, creando se del caso incentivi economici, perché i neo-convertiti necessitano di cure particolari.

La situazione cambia radicalmente due anni dopo, nel 1689. È l’anno che i valdesi chiamano del «glorioso rimpatrio», cioè del ritorno in armi degli esuli dalla Svizzera al Piemonte (cfr. Società di Studi Valdesi 1988). Decisi a riconquistare manu militari le loro valli, guidati da Enrico Arnaud (1643-1721), un migliaio di esuli valdesi forzano il valico del Moncenisio e si dirigono verso le valli native. Ancora una volta interviene l’esercito di Luigi XIV, e inizia una lunga guerra di montagna dove i valdesi non potranno che soccombere. Tuttavia l’avventura di Arnaud è stata intrapresa con un occhio agli avvenimenti politici dell’Europa. Qui è iniziata la Guerra dei nove anni, dove la politica egemonica di Luigi XIV è contrastata dalla Grande Alleanza fra Olanda, Inghilterra, Austria, Spagna, Danimarca e Svezia. Vittorio Amedeo II, che da tempo – nonostante i legami familiari – patisce i tentativi francesi d’interferire nella politica dei suoi Stati, tra l’altro anche in tema di valdesi, nel 1690 rompe gli indugi e si schiera con la Grande Alleanza. Da alleati i francesi – che in teoria si trovano in Piemonte per aiutare il duca contro i valdesi di Arnaud – diventano nemici. L’Inghilterra e l’Olanda, nuove alleate di Vittorio Amedeo II, si considerano potenze protettrici dei valdesi. I soldati francesi presenti in Piemonte sono arrestati, e il 18 giugno 1690 il duca conclude la pace con i valdesi. Revoca l’editto del 1686, dichiarandolo estorto da Luigi XIV, e nel 1694 emana un nuovo editto con cui reintegra i valdesi in tutti i loro diritti. Il duca nomina pure Arnaud colonnello dell’esercito sabaudo, convinto che le truppe degli antichi esuli si batteranno con valore contro il loro nemico storico francese.

L’editto del 1694 determina un conflitto fra il ducato di Savoia e la Santa Sede. Il 19 agosto 1694 l’editto è condannato dal Sant’Uffizio. La condanna indigna Vittorio Amedeo II, che la considera un segno di scarsa considerazione del Papa nei confronti del Ducato: «Non sono meno sovrano sui miei Stati – scrive il 12 settembre 1694  al nunzio apostolico – di quanto lo sia qualsiasi altro Principe d’Europa» (Fava 1984, 203-204). Il 31 agosto 1694 il Senato di Torino aveva dichiarato nullo il decreto del Sant’Uffizio. Papa Innocenzo XII (1615-1700) cerca di calmare le acque rispondendo al duca il 14 settembre che il decreto non sarà pubblicato in Piemonte perché non è diretto contro il sovrano ma ha di mira «la pessima sostanza del decreto pubblicatosi prima costà a favore degli eretici, in grave dispregio della Religione e dei Cattolici e contrario all’insigne pietà dell’A.S. ed alla sua gloria insieme» (ibid., 204).

Il beato, se nel 1686 aveva raccomandato moderazione, nel 1692 sconsiglia al duca di pubblicare l’editto a favore dei valdesi – che potrebbero profittare del clima di guerra per estendere la loro presenza e fare proselitismo anche fra i cattolici – temendo che «col publicare l’ordine sudetto nel modo che si è conceputo [sic] né venga a pattir la gloria di Dio, la sua fama sì accreditata e la salute dell’anime che tanto costano a Christo» (Dordoni 1992, 37). Consiglia a Vittorio Amedeo II di consultarsi prima con il Papa. Una volta emanato l’editto del 1694, però, a differenza di altri teologi il beato si schiera con il duca, sulla base di una considerazione realistica delle pressioni che il sovrano, mentre infuria la guerra, subisce da parte dei suoi alleati. Benché in questa occasione Valfré invochi anche l’autonomia del principe nella sfera più strettamente politica, «attestazioni numerose della sincera obbedienza del Valfré all’autorità del Papa inducono ad escludere in lui l’influsso di suggestioni gallicane» (ibid., 38). Dalla corrispondenza fra il beato e il duca emerge piuttosto l’influsso moderatore del primo, «provvidenziale per Roma» (Fava 1984, 205) e per lo stesso duca, il cui carattere focoso potrebbe portare a una rottura con il Pontefice. Vittorio Amedeo II è un cattolico devoto, pronto ad ascoltare i moniti di Valfré, ancorché – non diversamente da altri principi del suo tempo –, come ha mostrato la storica Virginia Carini Dainotti (1911-2003), consulti anche maghi e astrologi, il che spiace evidentemente al beato (cfr. Dainotti 1932).

Sulla crisi determinata dall’editto del 1694 Vittorio Amedeo II finisce per scrivere al beato, con una lettera datata «dal campo d’Orbassano li 2 settembre 1694» che ritiene «essere dell’obbligo mio il sostenere prima la Religione e poi l’autorità del Principe» e che dunque «per sensibile che mi sia il passo odioso che si è fatto in Roma contro di me, mi sarà al doppio sempre più [caro] quello di sostenere con il zelo che ho ciò che riguarda la nostra religione» (Vittorio Amedeo II 1694). Anche Papa Innocenzo XII, nel novembre 1694, si dichiara soddisfatto e informa il governo sabaudo che «ha messo un sasso su tutta la faccenda ed ha ordinato al Santo Ufficio il silenzio su quanto è accaduto» (Fava 184, 205).

L’editto, così, rimane in vigore e i valdesi si battono per il duca contro i francesi, anche se la guerra non ha esiti felici per Vittorio Amedeo II. Quello stesso generale Catinat, che nel 1686 era sceso in Piemonte per combattere a fianco del duca contro i valdesi, sconfigge ripetutamente le truppe sabaude e costringe Vittorio Amedeo II a firmare nel 1696 il Trattato di Torino, con cui passa nuovamente dalla parte della Francia. Il ripiegamento però è puramente tattico. Il duca, infatti, mantiene contatti con la Grande Alleanza e nel 1703 annuncia il suo ritorno nella lega europea che si oppone alla Francia. Questa reagirà attaccando il Piemonte, il che determinerà l’assedio di Torino del 1706 – in cui rifulgerà l’opera di assistenza alle truppe sabaude e umanitaria del beato Valfré – e la grande vittoria di Vittorio Amedeo II, a perenne memoria della quale sarà costruita la Basilica di Superga.

Le continue guerre determinano però – oltre al ritorno dei valdesi nelle valli, di cui cambia dunque nuovamente la geografia religiosa – il passaggio nel Ducato degli eserciti della Grande Alleanza, in cui militano numerosi soldati protestanti. Se ne preoccupa la Santa Sede, che chiede al duca norme che ostacolino la propaganda protestante in Piemonte, Il nuovo arcivescovo di Torino, mons. Michele Antonio Vibò (1630-1713) – succeduto a mons. Beggiami, morto nel 1689 – vieta ai suoi diocesani ogni contatto con militari protestanti non strettamente necessario, e anche di affittare loro abitazioni. Il beato approva le prescrizioni dell’arcivescovo, ma raccomanda moderazione nella loro applicazione perché da una parte potrebbero generarsi nei cattolici angustie e scrupoli, dall’altra da prudenti contatti i soldati protestanti potrebbero ricavare una migliore immagine della Chiesa cattolica e qualcuno eventualmente anche convertirsi (Valfré 1694).

Soprattutto, Valfré moltiplica le provvidenze perché non si determini una saldatura fra cappellani anglicani e calvinisti delle armate inglese e olandese e pastori valdesi allo scopo di diffondere il protestantesimo in Piemonte. Se al termine della Guerra dei nove anni le valli valdesi hanno di nuovo una maggioranza protestante, grazie in gran parte all’azione del beato vi rimane pure una salda presenza cattolica, animata dalle grandi processioni del Santissimo Sacramento. E la temuta propaganda protestante dei soldati ha fatto in Piemonte ben pochi proseliti, ancorché si siano diffuse – ma presso piccolissimi gruppi o singoli personaggi isolati – anche nuove forme religiose portate dall’Inghilterra e sconosciute in Italia, come quella dei quaccheri (cfr. Capello 1872, I, 412-413). Non mancano viceversa protestanti stranieri che il beato converte al cattolicesimo: anche se pure questi casi non sono molto numerosi.

A fronte delle controversie sui bambini valdesi sottratti alle famiglie, qualche autore moderno si è stupito dell’ottima fama di cui il beato godeva fra i valdesi, e i protestanti in genere, come sacerdote tollerante e caritatevole (cfr. Pascal 1927, 117-118). Lo stupore però deriva da una mentalità del XX, non del XVII secolo. All’epoca l’opinione del beato sui minori valdesi appare meno scandalosa di oggi: e lo provano i rapporti che, anche dopo questo incidente, egli continua a intrattenere con la comunità valdese. Certamente il beato non ha un atteggiamento ecumenico nel senso che la parola assume nel XIX e XX secolo: ma, nel secolo XVII, non lo ha nessuno. Tuttavia egli si accosta ai valdesi con grande delicatezza e con vera carità, e si preoccupa sinceramente delle loro necessità materiali. Non dobbiamo però attribuirgli uno spirito diverso da quello suo e della sua epoca. Fini primari del suo interesse per i valdesi rimangono l’annuncio della fede cattolica e l’evangelizzazione.

Lo testimonia il suo atteggiamento nei confronti di un’altra minoranza religiosa, gli ebrei. Il beato incoraggia la politica relativamente tollerante di Vittorio Amedeo II nei confronti degli ebrei del Ducato. Questa politica s’indurirà solo dopo la morte del beato: circostanza in cui alcuni hanno visto una conferma dell’influenza favorevole alla tolleranza esercitata da Valfré sul duca (Fava 1984, 218). La tolleranza nei confronti degli ebrei per il beato ha anche una dimensione mistica ed escatologica. Egli non vuole che iniziative intempestive ostacolino la marcia verso «l’ora della conversione collettiva» (ibid., 224), che annuncerà i tempi ultimi. Preferisce agire con tatto e confidare nella preghiera. La pratica del beato di recitare il Benedictus per la conversione degli ebrei ogni volta che passava vicino al ghetto continuerà dopo la sua morte per molti anni fra gli Oratoriani di Torino. Né sarà testimone il processo canonico (cfr. Sacra Rituum Congregatio 1728, f. 2036) Quanto alle conversioni individuali, queste sono in linea di massima rare, ancorché nel periodo che va dagli ultimi decenni del Cinquecento all’epoca del beato in Italia si siano fatte relativamente più frequenti.

Benché le conversioni operate da Valfré di cui si ha traccia riguardino casi individuali che restano nell’ordine delle decine, le difficoltà dell’impresa rendono comunque il numero significativo, e il beato è circondato in vita e dopo la morte dalla fama di gran convertitore di ebrei (cfr. Olgiati 1996, 44-49). Il decreto di beatificazione Caelestis agricola del 15 luglio 1834, di Papa Gregorio XVI (1765-1846), menziona specificamente i mirabili risultati ottenuti nell’opera di conversione degli ebrei. Anche tra gli ebrei ci sono casi di minori che fuggono dalle case paterne e dichiarano di volersi fare cristiani. Per ragioni analoghe a quelle esposte per i valdesi, il beato ritiene che non vadano restituiti ai genitori (cfr. Fava 1984, 223). Una di queste minorenni, fuggita di casa a dieci anni e adottata da cristiani, diventa una venerata suora, suor Maria Maddalena Trucchi (su cui non ho potuto rintracciare altre informazioni: cfr. Capello 1872, I, 421).  Come – ancora – per i valdesi, Valfré profonde sugli ebrei i tesori della sua carità: ed essi gli testimoniano grande rispetto. Rimane, però, uomo del suo tempo, come testimonia l’episodio riferito da tutti i biografi del battesimo da lui impartito a un bambino ebreo morente con un sotterfugio. Dal momento che gli ebrei gli riconoscono doti di guaritore, propone ai genitori di versare sul bimbo malato acqua con aglio e cipolle, da cui afferma di sperare qualche miglioramento: «bastava l’acqua, perché intendeva semplicemente di battezzarlo per mandarlo in paradiso; ma feì l’aggiunta di que’ legumi per coprire il pio inganno che meditava. Recatagli pertanto l’acqua, che naturalmente fu trovata prima delle altre cose, ei ne prese colla mano e destramente lo battezzò, pronunciando sotto voce le sacramentali parole» (Capello 1872, I, 421-422).

Il caso degli ebrei conferma quello dei valdesi. Il beato si rende popolare presso le minoranze religiose con un atteggiamento di grande dolcezza e carità, e sovviene per quanto può alle necessità materiali. Rimane però fermissimo sui principi e non perde occasione per ottenere il maggior numero possibile di conversioni. Senza voler giustapporre a tutti i costi una terminologia moderna a vicende antiche, non è forse improprio concludere che attraverso questo atteggiamento – e al di là di vicende contingenti e del contesto di uno Stato che è ovviamente diverso dallo Stato laico moderno – il beato ci trasmette un insegnamento che è valido ancora oggi: il dialogo non esclude l’annuncio e la missione. Diversamente, non sarebbe dialogo o tolleranza: sarebbe quel relativismo che, secondo un tema centrale del magistero di Benedetto XVI, non favorisce in realtà il dialogo ed è nemico di tutte le religioni.

Riferimenti bibliografici

[Ringrazio Cristina Siccardi e Daniele Bolognini per la preziosa assistenza nelle ricerche bibliografiche e archivistiche e nel reperimento delle fonti.]

Audisio, Gabriel. 1989. Les «vaudois». Naissance, vie et mort d'une dissidence (XIIe-XVIe siècles). Albert Meynie, Torino.

Capello, Paolo. 18722. Della vita del B. Sebastiano Valfré cofondatore della torinese congregazione dell’Oratorio di S. Filippo Neri, con notizie storiche de’ suoi tempi libri cinque. 2 voll.  Marietti, Torino - Roma - Napoli.

Dainotti, Virginia. 1932. «Veggenti ed astrologi intorno a Vittorio Amedeo II». Bollettino storico-bibliografico subalpino, n. 34, pp. 263-282.

Dordoni, Annarosa. 1992. Un maestro di spirito nel Piemonte tra Sei e Settecento. Il padre Sebastiano Valfré dell’Oratorio di Torino. Vita e Pensiero, Milano.

Fallaci, Oriana. 2008. Un cappello pieno di ciliege [sic]. Rizzoli, Milano.

Fava, Cesare. 19842. Vita e tempi del Beato Sebastiano Valfré, Prete dell’Oratorio di San Filippo di Torino. Alzani, Pinerolo.

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Valfré, Sebastiano. 1694. L’usar frequente comunicatione con gli eretici senza conveniente necessità. Archivio dell’Oratorio, Torino.

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