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Luigi Berzano (a cura di), Credere è reato? Libertà religiosa nello Stato laico e nella società aperta, Edizioni Messaggero, Padova 2012, 312 pp., euro 24,00 [consulta l'indice]

Recensione di Luca Bossi

imgIl reato di plagio  

Istituito nel 1930 con l'introduzione del codice Rocco, contrariamente ai pareri espressi dalla Commissione parlamentare incaricata della stesura del codice, dalle Commissioni reali degli avvocati e procuratori di Napoli e Roma e dalla Corte d'Appello di Napoli, l'articolo 603 del codice penale italiano definiva la natura e la pena prevista per il reato di plagio. In epoca repubblicana questo veniva considerato delitto equiparabile alla riduzione in schiavitù; nel 1961 la Corte di Cassazione definì il plagio come "l'instaurazione di un rapporto psichico di assoluta soggezione del soggetto passivo al soggetto attivo". Vent'anni più tardi, con la sentenza n. 96 dell'8 giugno 1981, la Corte Costituzionale dichiarò incostituzionale la norma, sottolineandone l'assenza di "corrispondenza fra fatto storico che concretizza un determinato illecito e il relativo modello astratto. Ogni giudizio di conformità del caso concreto a norme di questo tipo implicherebbe un'opzione aprioristica e perciò arbitraria in ordine alla realizzazione dell'evento o al nesso di causalità fra questo e gli atti diretti a porlo in essere, frutto di analoga opzione operata dal legislatore sull'esistenza e sulla verificabilità del fenomeno". L'indefinitezza del reato e la conseguente arbitrarietà nell'applicazione della norma furono dunque i motivi della sua dichiarata incostituzionalità. Non che l'indefinitezza fosse superabile con una riscrittura più accurata del testo: la sentenza della Corte paragonò il reato di plagio a una "mina vagante nel nostro ordinamento, potendo essere applicata a qualsiasi fatto che implichi dipendenza psichica di un essere umano da un altro essere umano e mancando qualsiasi sicuro parametro per accertarne l'intensità". Non per caso, dunque, nei suoi cinquantuno anni di vita l'articolo 603 del codice penale fu applicato una sola volta, nel 1968, portando alla condanna di Aldo Braibanti, ex partigiano, artista, accusato di avere indotto due diciannovenni a intrattenere con lui rapporti sentimentali e omosessuali. Alto fu il clamore suscitato e la vibrante critica sollevata da intellettuali delle diverse discipline, tanto che un successivo processo per plagio si risolse nel 1981 con la dichiarazione d'incostituzionalità della norma e la conseguente assoluzione del sacerdote cattolico Emilio Grasso.  

Il disegno di legge sul reato di manipolazione mentale  

Dopo diversi tentativi di reintroduzione del reato di plagio, il 15 maggio 2008 è stato presentato un nuovo disegno di legge, n. 569, per l'introduzione del reato di manipolazione mentale, a integrazione dell'articolo 613 del codice penale regolante lo "stato d'incapacità procurato mediante violenza". La nuova definizione cui si fa ricorso vorrebbe in sé appianare le critiche e permettere di superare i limiti d'incostituzionalità della normativa già abrogata, ma restano evidenti i problemi: la manipolazione mentale, al pari del plagio, non è oggetto misurabile né esistono strumenti concettuali o tecnici capaci di valutarne oggettivamente l'intensità. Se si utilizza una definizione come quella cui fa ricorso il disegno di legge, questa anziché generale sarà piuttosto generica, tanto da diventare onnicomprensiva di atteggiamenti e comportamenti tipici di molte relazioni umane del tutto lecite. Come si legge nel testo della proposta, l'articolo punirebbe con la reclusione da due a sei anni "chiunque, mediante tecniche di condizionamento della personalità o di suggestione praticate con mezzi materiali o psicologici, pone taluno in uno stato di soggezione continuativa tale da escludere o da limitare grandemente la libertà di autodeterminazione". Il condizionamento culturale, tuttavia, come la suggestione, l'uso della comunicazione verbale e non verbale, il ricorso ai meccanismi di reazione emotiva, sono caratteri diffusi dell'attività sociale dell'uomo, a partire anzitutto da quella educativa: la conclusione è che il reato di plagio in sé sia impossibile a realizzarsi, poiché, in caso contrario, andrebbe punita ogni situazione di dipendenza psichica ed emotiva, come quelle del rapporto tra due amanti, tra genitori e figli, tra maestro e allievo, tra medico e paziente, tra guida spirituale e discepolo e molte altre che si ripresentano nella vita quotidiana.  

L'opera  

Nel tentativo di portare ordine e conoscenza in una materia confusa, tra il 2010 e il 2012 si è costituito un invisible college di studiosi ed esperti della varie discipline: il risultato è una raccolta di saggi che fa dell'approccio multidisciplinare la chiave di volta di una struttura analitica salda e rigorosa.

Prende così avvio l'estesa, accurata e al tempo stesso agile e coerente trattazione del tema, che in quest'opera a più voci muove da una domanda di fondo – Credere è reato? – per approfondire la questione del plagio, o manipolazione mentale, nei suoi aspetti giuridici, filosofici, medici, psicologici, sociologici e religiosi.

Ci si accorge presto di quante forme della quotidianità siano investite da un'ipotesi di reato difficilmente sostenibile: pregio del volume è di non limitarsi alla questione – pur ben trattata – dell'autodeterminazione individuale e della possibilità di darne valutazione, ma di sollevare l'attenzione sulle macroconseguenze dell'introduzione del reato di manipolazione mentale. A partire, anzitutto, dal secondo comma dell'articolo, che contempla le aggravanti previste per i reati di plagio commessi "nell'ambito di un gruppo che promuove o pratica attività finalizzate a creare o sfruttare la dipendenza psicologica o fisica delle persone che vi partecipano". La preoccupazione, ben esposta dagli autori, è che in discussione siano gli stessi princìpi che regolano i diritti alla libertà di espressione e, tra questi, il principio di libertà religiosa in primis: il testo del disegno fa esplicito riferimento alla pericolosità rappresentata dalle sette religiose, termine col quale si comprendono molte delle nuove forme religiose sorte in un periodo di rinnovata vitalità spirituale e creatività associativa del sentimento religioso, come quello che stiamo attraversando. Termine originariamente coniato da Weber per definire lo stadio iniziale del percorso evolutivo di una forma religiosa, divenuto col tempo stigmatizzante perché associato all'idea di devianza dalla norma, seppur in un dominio, quello delle credenze religiose, nel quale il concetto di norma risulta inapplicabile. Perché mai resuscitare il reato di plagio, se non per il periodico riemergere delle campagne di lotta contro il pericolo delle forme religiose di minoranza, non istituzionalizzate, anomale e ritenute devianti od occulte? Tutto contribuisce a creare interpretazioni negative delle conversioni, come se queste fossero basate su manipolazione mentale, violenza e lavaggio del cervello. L'urto che può verificarsi tra la creatività delle nuove forme religiose e la sensibilità preoccupata delle tradizioni storiche è spesso fonte di reazioni in cui le emozioni hanno il sopravvento sulla ragione. Quando si verificano queste ondate di panico, servirebbe più ricerca e interpretazione del fenomeno per non favorire lo sbocciare di eventuali campagne di pericolosità che colpiscono di volta in volta solo capri espiatori. L'equilibrio tra tolleranza per ogni tipo di minoranza e applicazione del diritto è la sfida maggiore per la attuali società pluraliste.

È in quest'ottica che muove il complesso e accurato lavoro degli autori.

È in quest'ottica che si può ben dire che Credere non è reato.

Struttura del volume

Obiettivo principe della pubblicazione è dunque porre la questione dei rapporti tra libertà religiosa, Stato laico e società aperta, laddove con quest'ultima debba intendersi una società capace di accettare più visioni del mondo, più proposte politiche, più valori e – anche – più religioni e spiritualità.

I contributi di ventiquattro studiosi ed esperti riconosciuti accompagnano così il lettore in una disamina completa, autorevole e organica, muovendo anzitutto dal contesto storico – culturale e sociale – nel quale sono maturati e ancora maturano vocaboli e concetti utilizzati troppo spesso a sproposito: dall'idea stessa di manipolazione mentale e lavaggio del cervello ("un mito da anni screditato dalla letteratura scientifica") ai concetti di setta in contrapposizione a nuovo movimento religioso, sino al termine più spesso usato e abusato, quella libertà religiosa di recentissima costituzione di fronte alla quale si dispiega con evidenza tutta la fallacia di un disegno di legge ipocrita e infondato.

La prefazione di D'Agostino e l'introduzione di Berzano preparano alla lettura dei contributi, organizzati secondo una logica tematica che muove dalle questioni più generali sino alla discussione analitica dei casi specifici ai singoli problemi. Una prima parte, Epistemologia della libertà religiosa, attiene ai fondamenti della libertà, alle sue forme, ai suoi limiti, ai suoi rischi: sono i temi affrontati da Belardinelli, Ferrarotti, Leone, Luciano, Vannini e Volli. Si discute così la libertà in ambito politico, sociale, religioso, lavorativo, territoriale, amoroso: troppa libertà richiama il caos, ma troppo ordine evoca il silenzio e la dittatura. Anche in campo religioso, dove assenza di libertà è fondamentalismo e assenza di ricerca.

La seconda parte dell'opera, Diritto, Costituzione e libertà religiosa, discute direttamente la pretesa di assoggettare a repressione penale le attività definite di manipolazione mentale. I contributi di Amicarelli, D'Agostini, Heritier, Margiotta Broglio, Mellini, Monetti, Nocita e Pace invitano coerentemente a non produrre anche in ambito religioso "fattispecie penali apparenti": chi ha la scienza e il diritto di formulare la definizione di setta? Ancor più, chi può indicare il punto in cui i rapporti interpersonali educativi, formativi e motivazionali assumono la natura di manipolazione mentale?

La terza parte del volume, Libertà religiosa: temi e problemi, tratta le questioni specifiche relative al lavaggio del cervello, al controllo sociale e penale delle minoranze religiose, alle opportunità costituite dall'educazione alla libertà, alla tolleranza e al rispetto delle differenze e al ruolo che la scuola pubblica può e deve ricoprire nella costruzione di una società aperta e plurale. Seguendo i contributi di Di Marzio, Giorda, Introvigne, Manconi, Palombo, Perucchietti e Turri, si discuterà del mito del lavaggio del cervello, abbandonato da tutti gli studiosi dei religious studies come delle discipline giuridiche, sociologiche, psicologiche e teologiche. Si vedrà come il riaffiorare della nozione si basi sull'eventualità di reati dovuti al maltrattamento e abuso dello stato di debolezza di persone inabili a intendere e volere, reati di fronte ai quali la normativa vigente in materia di circonvenzione d'incapace appare sufficiente alla tutela del diritto di ognuno.

La bibliografia finale, curata da Viarengo, presenta i principali testi sull'argomento disponibili nella traduzione italiana, e rappresenta una risorsa insostituibile per orientarsi nella vasta letteratura sulle questioni ancora aperte a proposito di libertà religiosa nelle società contemporanee.

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