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Tolkien and The Lord of the Rings Saga

Tolkien: un'iniezione di realtà

 

2001: nessuna Odissea nello spazio, ma un anno epico sulla terra.

Nel mondo anglofono, Buffy the Vampire-slayer si conferma un enorme successo, e finalmente giunge anche in Italia. Da virtuali, le avventure di Lara Croft "prendono carne" nelle sale cinematografiche con la versione filmica del videogioco Tomb Raider, la quale conta almeno un palese tentativo d'imitazione seriale negli episodi televisivi di Relic Hunter. Mentre la fascinazione per il mystery archeologico (lanciato dalla serie di Indiana Jones) prosegue e s'infittisce, la prima delle avventure di Harry Potter raggiunge qualche milione di persone in più nella riduzione cinematografica che conferma e rinnova una passione oramai diffusissima. Fra qualche mese –nell'anno solare 2001 no, ma in quello scolastico 2001-2002 sì, e la cosa ha un significato non banale a fronte di avvenimenti che coinvolgono direttamente gli adolescenti – si potrà assistere al secondo episodio del prequel di Guerre Stellari, il quinto film della serie.

E oggi, 19 dicembre 2001, raggiunge le sale il film forse, coscientemente e incoscientemente, più atteso della storia del cinema, quello che milioni di persone hanno inconsapevolmente atteso per anni, o sperato che qualcuno finalmente – dopo qualche deludente falsa partenza – realizzasse: Il Signore degli Anelli – per ora il suo primo episodio, La Compagnia dell'Anello –, tratto dall'omonima saga di J.R.R. Tolkien.

Senza dubbio un annus mirabilis per gli amanti di questi generi letterario e cinematografico, uniti in un'interazione continua e altamente rivelatrice. Ma altrettanto indubbiamente un fenomeno – o il ripetersi e il confermarsi di esso – che chiede una riflessione.

Milioni di persone si appassionano alla lettura di opere come quelle prodotte da Joanne Kathleen Rowling e da John Ronald Reuel Tolkien, e gli stessi più altri milioni si affollano nelle sale per assistere alla proiezione di pellicole "d'evasione", "di fantasia", "irreali".

Una colossale crisi collettiva di razionalità, una pericolosa perdita di senso della realtà? Sì, se per reale e razionale – magari fra loro coincidenti come vorrebbe Hegel – s'intende solo ciò che è fattuale in senso materiale e addirittura materialistico. No, se – come sta accadendo nella cultura popolare soprattutto a partire dall'ultimo quarto del secolo XX – della realtà e di ciò che non offende ma anzi esalta la ragione umana si ha – anche solo istintivamente, intuitivamente – una concezione diversa.

Questa "concezione diversa", Tolkien l'ha messa coscientemente a tema della propria produzione letteraria. Come scrive nel notissimo saggio Sulle Fiabe, infatti,

La Fantasia è una naturale attività umana. Certo, essa non distrugge e neppure offende la Ragione, e non smussa neanche l'appetito per, né oscura la sua percezione della, verità scientifica. Al Contrario. Quanto più la ragione è acuta e chiara, tanto meglio opererà la fantasia. Se gli uomini si trovassero in uno stato nel quale non volessero conoscere o non potessero percepire la verità (i fatti o le testimonianze), allora la Fantasia languirebbe fintantoché essi non fossero guariti. E se mai giungeranno ad uno studio di questo genere (il che non sembra del tutto impossibile), la Fantasia perirà, e diverrà Illusione Morbosa.1

Le opere letterarie tolkieniane – seppur talvolta oggetto di distorsioni tanto clamorose quanto falsanti – si propongono anzitutto come grandi affreschi artistici, di carattere anche teologico, fondati su quell'amor, quella pietas e quella charitas, oltre che sul coraggio e sulla fortezza – compresi la dedizione, l’abnegazione e l’eroismo anche dei "piccoli" – che il filologo ammirava nelle letterature classiche, nelle fiabe o nei racconti epici e mitologici, e nella Bibbia. Le sue storie, infatti –, non necessariamente fattuali, ma reali perché vere – sono state concepite come "subcreazione"; ovvero, come esempi della capacità poietica – produttrice e poetica – dell’uomo che crea, partecipando della facoltà più importante del proprio Creatore a immagine e somiglianza del quale è stato fatto. Un uomo, dunque, per il quale la creazione letteraria – la creatività tutta – finisce per essere un grandioso esempio di imitatio Dei.

Se si pensa che Tolkien ha raggiunto la fama mondiale in anni in cui il mondo giovanile è stato contrassegnato da "alternative", psichedelie, "fughe dalla realtà" e contestazioni poi risoltesi in un piatto e insipido conformismo, forse si può cominciare a interpretarne l'opera non più come un'ennesima fuga, ma al contrario come una grande iniezione di realismo. Di un realismo di cui il mondo alla fine dell'epoca moderna e alle soglie della post-modernità mostra di essere enormemente assetato, assolutamente non soddisfatto quale esso è da quei surrogati che, denunciando come pericolosa l'immaginazione, finiscono solamente per smerciare cinismo a buon mercato.

Al termine di un volume divenuto classico, peraltro assolutamente non tenero nei confronti di Tolkien, lo studioso di letteratura inglese Colin N. Manlove riassume tutto questo con una frase che ben potrebbe essere dell'autore de Il Signore degli Anelli:

La morale sembrerebbe essere che solo i realisti schietti sono in grado di scrivere opere di fantasia davvero ricche d'immaginazione: solo chi conosce davvero bene un mondo può crearne un altro intimamente intessuto di realtà.2

La popolarità delle opere di Tolkien nel mondo, e oggi la grande aspettativa che un po' ovunque circonda il film tratto dalla sua opera più nota – al di là delle fragilità che esso potrebbe pur rivelare –, sembra dunque rispondere a un esigenza diversa da quella del ripudio della realtà; anzi opposta. Il fatto che milioni di persone, anche inconsapevolmente, rispondano positivamente al richiamo di opere che propongono un'immersione completa nella realtà seppur compiuta mediante strumenti che fanno ricorso alle potenze dell'arte, della bellezza e del fascino dice qualcosa di non facilmente ignorabile quanto allo stato della cultura popolare oggi nel mondo.

La realtà, infatti, persino quella fattuale, può essere descritta e comunicata attraverso suggestioni, allusioni e immagini, spesso addirittura più potenti dell'allegoria diretta. Da Omero in poi, l'uomo non se ne è mai scandalizzato, né la considerata una "pericolosa deviazione". E nel Vangelo Gesù ne ha fatto un "genere letterario" di predicazione…

Più che una risposta allo straordinario successo di Tolkien, quindi, queste poche riflessioni iniziali desiderano essere soprattutto la corretta impostazione di una domanda. Aperta, certo; ma ineliminabile. La cavalcata dei Rohirrim comincia da qui…

Marco Respinti

1 John Ronald Reuel Tolkien (1892-1973), Sulle fiabe (On Fairy-Stories, 1a ed., con piccole differenze, 1947), in Il medioevo e il fantastico (The Monsters and the Critics, and Other Essays, 1983), a cura di Christopher Tolkien, ed. it a cura di Gianfranco de Turris, trad. it. di Carlo Donà, Luni, Milano-Trento 2000, p. 213. Si veda anche Idem, Sulle fiabe (On Fairy-Stories), in Idem, Albero e Foglia (Tree and Leaf including the poem "Mythopoeia", 2a ed. ampliata 1988; 1a ed., senza la poesia Mythopoeia, trad. it. Mitopoeia, 1964), con introduzione di Christopher Tolkien, trad. it. di Francesco Saba Sardi, Rusconi, Milano 1988 (1a ed., senza la poesia Mythopoeia, trad. it. Mitopoeia, 1976), p. 75.

2 Colin N. Manlove, Modern Fantasy: Five Studies. Cambridge: Cambridge University Press, 1975, p. 260.

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