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Così vivono le cellule di Al Qaeda a Torino

Rapporto segreto al Viminale: la città crocevia di estremisti islamici [Documento - “La Stampa”, 14 febbraio 2005]

I nastri delle intercettazioni della polizia spagnola raccontano segreti e misteri delle cellule dormienti di Al Qaeda in Italia, nate dai corsi di reclutamento dei mujaheddin per l’Iraq, l’Afghanistan, e - prima ancora - per la la Bosnia e la Cecenia. Gli indizi di una progressiva, inarrestabile infiltrazione nella società italiana degli estremisti islamici, che ormai è pure difficile definire (Terroristi? Resistenti? Patrioti?) sono ormai consolidate. Uno fra i tanti: quando nelle moschee di Porta Palazzo, a fine aprile 2003, la cellula inizia la raccolta di soldi a favore delle «vedove dei kamikaze marocchini» che si faranno saltare a Casablanca, pochi giorni dopo, provocando decine di vittime.

Basta scorrere le carte segrete del ministero degli Interni, scritte dagli uomini della Digos, per avere un quadro preciso. Torino, in questo contesto, ha un ruolo centrale. Strategico. E non fu casuale che Mohamed Rabei, «l’egiziano», considerato la mente degli attentati dell’11 marzo 2004 a Madrid, arrestato a Milano dalla Digos, fu individuato grazie a un’intercettazione raccolta dagli investigatori torinesi. Rabei stava cercando nuovi adepti, e a loro ha confessato di «avere progettato l’attentato sui treni e di essere intimo amico degli attentatori morti a Leganes». Nelle 166 pagine della memoria finale (alcune ora in esclusiva su La Stampa), da mesi nelle mani degli analisti del Viminale, ci sono le prove dell’attività della cellula. Di più. Gli inquirenti hanno ricostruito minuziosamente gli ingenti flussi di denaro, attraverso alcuni istituti italiani, diretti in Pakistan; quindi la linea diretta tra Torino e i campi di addestramento afghani di Al Qaeda. I mujaheddin sono stati individuati nell’elenco dei passeggeri dei voli di linea diretti in Pakistan, via Iran. Infine, i nomi di decine di uomini e donne (molti sconosciuti) che costituiscono tuttora la rete dei fiancheggiatori. Come il capo della cellula torinese, l’insospettabile operaio Noureddine Lamor, uno degli extracomunitari espulsi del novembre 2003. Erano già noti i suoi febbrili spostamenti, nel 2000, in Iran, Yemen, Turchia, prima di approdare finalmente nei campi della Rete, tra il Pakistan e l’Afghanistan. Il passaporto H675212 racconta le tappe del suo percorso, prima di diventare uno dei tanti mujaheddin «in sonno»; a Torino, però, fa il metalmeccanico. Ma non erano noti i nastri delle intercettazioni ambientali. Sono le 17,31 del 13 novembre 2002. A casa di Lamor Noureddine, un alloggio in via Boucheron, scorrono le immagini di Al Jazeera. Stanno trasmettendo un discorso di Bin Laden. Lo sceicco minaccia anche l’Italia di ritorsioni. La moglie, Hanan, commenta: «Anche l’Italia hanno minacciato, perchè sono alleati con l’America... l’Italia, è arrivato il loro turno, è arrivato il loro turno». Il pakistano Ahmed Naveed, professione ambulante di chincaglieria, movimenta sui suoi conti, divisi in diverse agenzie di un’unica banca, somme ingenti. E’ lui, secondo gli investigatori, l’uomo che potrebbe raccontare molto sui finanziamenti dei corsi di addestramento dei combattenti «italiani». Due mesi dopo l’attentato alle Torri Gemelle, Naveed viene informato dai vertici della Rete in Pakistan che adesso «hanno bisogno di 200-300 milioni (di vecchie lire) al mese».

Nel dossier, poche righe su Bouriqi Bouchta, che fu a lungo l’Imam della moschea di via Cottolengo. Il 16 gennaio 2000 organizza una colletta per i guerriglieri ceceni e il «reclutamento di volontari per la Jihad». Ma, già il 16 novembre 1992, a casa Bouchta, in via Orvieto 28, viene segnalata la presenza di Abou Khalid, un istruttore militare delle milizie musulmane in Bosnia-Erzegovina. Dal luglio 2001, gli 007 dell’Antiterrorismo, individuano i componenti della cellula torinese. Punto di partenza, i tabulati telefonici di una linea di Peshawar, in un ufficio utilizzato da uomini della Rete. C’è anche il numero di un cellulare: 3393801731, intestato a un’italiana convertita, Erika Solavagione. Da qui partono le indagini e vengono ricostruiti ruoli e organigrammi. I primi «probabili componenti» della cellula sono Nabil Hamrad (marito di Erika); Mohamed Hamrad; Lamor Noureddine; Mohamed Aouzar (arrestato in Afghanistan, spedito a Guantanamo Bay e infine espulso in Marocco); Solbi Mostafa. Alla fine dell’indagine, la procura di Torino aveva chiesto l’arresto di Lamor Noureddine e di altri. Tra questi, Yacine Charef, Assan Khalid, Yassine Chekkouri, Kalifga Alzaruq per «partecipazione ad associazione con finalità di terrorismo internazionale» (art. 270 bis e ter). Infine i nomi dei presunti fiancheggiatori: Mohamed Hamrad, residente a Cuorgnè; Azzedine Sadraoui, Torino; il prof. Abdel Ghani, Torino; Ben Hacine Snoussi, Imam di Como; Litayem Amor Ben Chedli, Como; Belgacem Ben Mohamed, Como; Abbes Hmansi, Como; Layachi Mesmous, Mantova; Mohamed Bacha, Torino; Zafar Iqbalm e Faycal Ben Said, Varese.

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