CESNUR - center for studies on new religions

"Con quale Islam è utile dialogare"

di Massimo Introvigne (il Giornale, 6 maggio 2004)

imgNegli ultimi giorni un convegno all’Istituto Italiano di Cultura di Bruxelles e un numero speciale del Nouvel Observateur annunciato da locandine che proclamano «L’islam illuminista esiste!» cercano di lanciare un nuovo soggetto: «l’islam dei Lumi».
Che cos’è questo «islam illuminista»? Esaminando testi per la verità non del tutto coerenti, sembra si tratti di una critica delle fonti islamiche simile a quella cui il metodo storico-critico sottopone da un paio di secoli le fonti cristiane. Questa critica liquida gli hadith, i detti del Profeta, come in gran parte apocrifi e costruiti per i bisogni della comunità ben dopo la sua morte, e nel Corano distingue un nucleo teologico e morale «autentico» da prescrizioni contraddittorie sulla società, la pace e la guerra che rifletterebbero semplicemente situazioni contingenti ed esigenze di potere.
Da questa base gli «illuministi» arrivano a posizioni diverse, che vanno da un apprezzamento sostanzialmente non religioso per elementi islamici ridotti a semplici valori culturali fino a un islam ultra-progressista che abbraccia la separazione all’occidentale fra religione, cultura e politica, e inoltre abbandona ogni pretesa di universalità dell’islam e quindi ogni proselitismo.
Questo modo di procedere ricorda da vicino la Haskalah, la versione ebraica dell’Illuminismo che è alle radici da una parte di quelle «denominazioni» modernizzatrici ebraiche che controllano oggi la maggioranza delle sinagoghe americane, sia della ancor più diffusa riduzione secolare dell’ebraismo a semplice cultura. Per comprensibili ragioni, la somiglianza con un movimento ebraico non è sbandierata dagli «illuministi islamici»: è più strano che non la notino gli osservatori esterni.
Pur generando anche vigorose reazioni «ortodosse», la Haskalah ebbe successo perché in molti paesi (non in tutti) le sue idee corrispondevano a quelle diffuse presso settori già molto ampi della popolazione ebraica. Le cose stanno in modo del tutto diverso per l’«illuminismo islamico». Nelle sue diverse versioni, raccoglie pochissimi consensi fra i musulmani, sia nei Paesi a maggioranza islamica sia nell’emigrazione. Chi si presenta ai convegni spesso vive in Occidente o è protetto da regimi laico-nazionalisti di dubbie credenziali democratiche; talora tornando a casa rischia la pelle, e il suo seguito è comunque scarso. Né si tratta di idee che potrebbero facilmente affermarsi tramite la scuola e l’educazione. Ci provarono i discepoli dell’Atatürk e la dinastia Pahlavi in Iran: ma in quelle scuole di Stato «illuministe» avevano studiato i giovani che nel 1979 animarono la rivoluzione fondamentalista di Khomeyni e la maggioranza che nel 2002 ha votato per i partiti religiosi in Turchia.
Sostenere l’«illuminismo islamico», per l’Occidente, significa nella sostanza dirottare verso battaglie contro i mulini a vento risorse che potrebbero essere utilmente impiegate nel dialogo con quell’islam conservatore che non ama Voltaire, non intende applicare il metodo storico-critico allo studio del Corano, non concepisce una democrazia che non sia dichiaratamente radicata nella religione, ma nello stesso tempo condanna il terrorismo e prende le distanze dal fondamentalismo.
È questo islam conservatore – che in paesi come la Turchia e la Malaysia è stato capace anche di vincere le elezioni – l’alternativa reale al fondamentalismo.

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